Amy Winehouse: un nome che può da solo riempire una frase. Eppure, per quanto se ne dica, di vuoto nella sua breve e imperscrutabile esistenza ce n’è stato molto. Il vuoto culturale, il vuoto umano, il vuoto delle decine e decine di bottiglie alcoliche “tracannate” tra lacrime, sudore e sigarette. La droga, la vita scellerata. Quanto pensiamo di conoscere una star? Sempre troppo poco. In questa recensione di Back to Black, vediamo come la regista Sam Taylor-Johnson e l’attrice Marisa Gabrielle Abela portano in scena questa vita, distopica senza ogni dire, e tremendamente vera.
C’era una volta a Camden Town
C’era una volta a Camden Town, nel cuore pulsante di Londra, una principessa anacronistica che viveva con la madre. Aveva un padre che guidava un fulgido taxi nero, tipico di quella Londra di cui sopra, mentre la sua confidente era la Nonna, una donna senza dubbio rigida, ma di una dolcezza senza tempo.
La principessa Amy era inquieta, in qualche modo sempre insoddisfatta della sua vita, sebbene non volesse nulla di particolare: voleva un grande amore, una famiglia, e vivere una vita felice. Non le importava nulla di denaro e ricchezza. La principessa Amy si svegliò bruscamente dal suo sogno quando incontrò il principe Blake che la irretì, seducendola con il suo fare strafottente.
Ovviamente, la storia e la vita di Amy Winehouse sono di fatto lontanissime da una fiaba, eppure guardandola non può che metterci addosso quella sensazione: una principessa cresciuta sull’asfalto moderno di un quartiere interno a Londra che somiglia, in tutto e per tutto, ad un mondo fiabesco fatto di colline verdi, castelletti diroccati e i più moderni grafiti di oggi. La sua storia è ipnotica, una storia di successo e autodistruzione.
“Le ragazze non sorseggiano: tracannano!”
Amy Winehouse voleva essere sé stessa: cantare era una parte della sua vita, l’inizio e la fine. Lei non voleva solo sorseggiare la vita, voleva morderla e tracannarla con tutto quello che ne consegue. Autodistruttiva? Certamente. Vera e viva? Indubbiamente. Marisa Gabrielle Abela porta con sé una responsabilità enorme: farci vedere sul grande schermo un gigante, una ragazza potentissima, talentuosissima ma al contempo fragile e ingenua. E ci riesce incredibilmente bene.
Il merito di tutto questo va senza dubbio alla mano della regista Sam Taylor-Johnson, in grado di cogliere l’essenza di questa persona, perché non va mai dimenticato che di una persona si tratta e non di un “personaggio”, fatta di tante sfaccettature il più delle volte in contrasto tra loro ma del resto, Amy era “figlia della sua cittadina”, cioè Camden Town che, chi ci è stato o ha avuto il piacere di viverci, sa perfettamente quanto anacronistica e contraddittoria possa essere.
Verace, vera e vivida ecco come appare questo ritratto alla vita, sebbene, come sappiamo, Amy Winehouse viene ritrovata morta all’età di 27 anni, per intossicazione da alcol etilico dopo un lungo periodo di astinenza. Amy era un diamante: dura come poche altre, splendente oltre ogni dire eppure, fragile, con un punto di rottura capace di farla sgretolare e scendere nel buio più totale, fatto di droga, alcol e autolesionismo. Una spirale discendente e auto-sabotatrice che ha saputo rivelare le fragilità di quel gigante che vediamo sul palcoscenico, ma che a luci spente altri non era che una ragazza come tante, con le sue paure e i suoi vizi, sogni e desideri da realizzare.
Una carezza con le unghie
Back to Black non è un film perfetto: è un gesto di gentilezza, una carezza fatta dalla mano di una madre, di una sorella, di una nonna, o di una fidanzata che distrattamente ti graffia con quelle unghie un po’ troppo lunghe. È la parafrasi di una vera artista, bella e dannata, dotata di una voce angelica e altrettanto demoniaca quando si spegnevano i riflettori del palco.
Amy non è una Spice Girl e ci tiene a farlo notare ogni tre per due: lei è un fuoco che arde intensamente, è tutto quello che vorresti essere ma non hai il coraggio di fare perché, in fondo, forse è più comodo uniformarsi che vivere seguendo davvero ciò che si sente dentro. Nella sua vita di cose belle ne sono successe, altrettante brutte, ma forse la cosa peggiore che è capitata ad Amy, è Amy stessa: non si possono imputare le fragilità ad una persona a se stessa, è chiaro, ma possiamo capire che cercasse disperatamente di uscire dal dolore che provava con la droga, l’alcol e le ferite che si autoinfliggeva.
Amy chiedeva aiuto disperatamente, eppure quando le si dava aiuto, lo rifiutava con forza e determinazione, forse è proprio per questo che è stata la stella splendente di Londra, seppur per poco, ma intensa come non mai. Il film non arriva al livello di Rocketman, ma è senza dubbio vivido, una di quelle pellicole che vorresti fossero proiettate nelle scuole, una di quelle storie che vale la pena ricordare.