A Carlo Verdone, effettivamente, nel suo lungo curriculum artistico, mancava un’incursione nel mondo delle serie tv. Un accordo con Amazon Video e i diversi mesi in lockdown sono serviti all’attore e comico romano per scrivere insieme a Nicola Guaglione una serie tv in dieci puntate dove Verdone per la prima volta, racconta non una storia o una maschera, ma bensì la sua vita, la sua intimità, i tormenti, i piaceri e i dispiaceri, insomma, una vera e propria incursione nella quotidianità di un attore amato e riconosciuto da tutti, con un risvolto narrativo inedito – la possibile candidatura a sindaco di Roma – su cui vertere un piano narrativo e drammaturgico utile alle stesse finalità della serie. Stiamo parlando di Vita da Carlo, di cui vi presentiamo la nostra recensione.
Vita da Carlo racconta Carlo, o quasi
Carlo Verdone si aggira per Roma, alcuni – anzi, tutti – lo riconoscono e gli chiedono una foto, un autografo, un selfie, anche due novelli sposi fermano le fotografie di rito post celebrazione per immortalarsi con il noto attore romano. C’è più Roma in lui che in tanti monumenti o storiche vie del centro ormai degradate. Ecco dunque che in un impeto di momentanea rabbia viscerale, all’ennesimo incidente per delle buche, Verdone davanti una piccola folle incuriosita, si esaspera per chi deturpa la Capitale. Alcuni lo riprendono con il cellulare, il video diventa virale, si fanno meme, stories di Instagram, insomma, Carlo da vero romano vuole solo il bene per la sua città, finché la maggioranza lo nota e gli propone di candidarsi a sindaco di Roma, questo mentre lui vorrebbe invece dedicarsi a un film d’autore, mal visto dal suo produttore
Dieci puntate per sviscerare quello che chiunque abbia seguito la carriera di Verdone si chiede da tanto, troppo tempo: come è cambiato l’approccio autoriale di Verdone al suo Cinema? In molti criticano gli ultimi film, definiti al pari di chi stia raschiando il fondo, motivo per cui perché non rievocare le famose maschere? Fulvio, Mimmo, Oscar Pettinari, tutti personaggi figli di una Roma(nità) che ha fatto scuola e che ha reso Verdone immortale nel tempo, giacché questi sono persone che si possono davvero incontrare nel corso della nostra vita, anche il malinconico Pietro Ruffolo, detto “er patata” dai vecchi amici in Compagni di Scuola, film che un giovane ragazzo incontrato all’università definirà “carino”, pur preferendo gli altri, perché lì si ride poco.
Lo stesso farà il suo produttore (uno splendido Stefano Ambrogi) che sembra rievocare le già note avventure di Verdone prima con Sergio Leone e poi con Cecchi Gori, sul valore della comicità in un film, di come Verdone sia più bravo a dirigere che a scrivere, perché nei copioni non si capisce mai il valore finale del film, dunque perché, nonostante la fama, non riesce a imporsi e farsi produrre un film personale, inedito, drammatico, dal respiro autoriale? Perché Carlo Verdone – sembra volerci dire con questa serie – si è costruito e inserito in questa sfera dove se prova a uscire fuori, sbaglia clamorosamente e lui non vuole sbagliare, tanto meno deludere famiglia e fan.
Uno sguardo malinconico
C’è una forte malinconica in questa serie; una risoluzione a tratti irreale e comica degli eventi. La vita frenetica di Verdone attore si riempie di telefonate con la sua agente, di produttori che impugnano i contratti, di amici (un fantastico Max Tortora che interpreta se stesso) che chiedono a lui consigli di vita coniugale o professionale, la sua famosissima venatura ipocondriaca che lo porta a conoscere e consigliare tantissimi medicinali anche senza ricetta, infine il rapporto morboso con i fan, che non vogliono il nuovo Carlo che forse sta pensando davvero a scendere in politica, ma quello di Mimmo con la Sora Lella, di “lo famo strano”.
Carlo Verdone parlando della sua vita, veicola la fantasia della parentesi politica per sottolineare forse proprio queste acute critiche che sta ricevendo negli ultimi anni: in molti non vogliono capire volontariamente le sue ultime pellicole, perché troppo ancorati al passato, ai personaggi, alle maschere romane così ilari e riconoscibili.
Nella sua semplicità di intenzioni, la serie purtroppo si perde in un bicchier d’acqua proprio nelle fasi finali. Quando deve chiudere tutte le trame primarie e secondarie aperte, la sceneggiatura rimane invece vacua su tutto. Non c’è una chiusura soddisfacente a quello narrato fino a quel punto, è uno sfogo personale e interpersonale riuscitissimo nel valore intimo, meno nel messaggio finale, che si conclude in una ricerca di un obiettivo personale che forse dovrà ancora venire, con una chiosa narrativa che strizza (troppo) l’occhio alla ricerca finale del Jep Gambardella de La Grande Bellezza, di cui lo stesso Verdone era attore.
Proprio l’insistenza su tante microstorie rende zoppicante la risoluzione finale degli avvenimenti: Paolo Calabresi, Morgan, Max Tortora, Alessandro Haber, Antonello Venditti, i figli di Verdone e rispettivi partner, il matrimonio naufragato, il rapporto con i fan dentro e fuori lo schermo. Di queste parentesi meno della metà vengono chiuse, il resto rimangono lì, vacue, spente, in preda a una smania e un fastidio generale che forse è del tutto voluto, quasi a raccontare un vuoto a cui dare una forma concreta, per poi lasciarla decifrare allo spettatore. Vita da Carlo è un esercizio di stile particolare, non del tutto riuscito, ma che segna un esordio positivo nella serialità, ma arrivato forse fuori tempo massimo.