Nel corso degli anni le varie tecniche cinematografiche hanno visto momenti di gloria e progresso. L’evoluzione delle possibilità tecnologiche ha ovviamente eliminato, o anche semplicemente scansato, la struttura attraverso cui le storie precedenti venivano rappresentate in favore di elementi più facili da gestire e magari anche più credibili da parte del grande pubblico. È questo il caso della cosiddetta stop-motion (in italiano chiamata tecnica a passo uno), modus operandi utilizzato molto spesso in passato nell’ambito dell’animazione e anche in qualche film per gli effetti speciali. Trattandosi di una tecnica che richiede un certo tipo di expertise e di tempo da dedicarci, mano a mano che l’evoluzione della computer grafica ha cominciato ad affermarsi la stop-motion è stata utilizzata sempre meno. Questo non implica una sua totale sparizione dai set, piuttosto una più agile sostituzione con possibilità espressive disegnate da maggiori possibilità (vi ricordiamo, ad esempio l’impiego della CGI in Jurassic Park coi dinosauri e la grande differenza che fece all’epoca sia per quanto concerne la resa generale che l’impatto sul grande pubblico). La stop-motion comunque non si è mai estinta del tutto restando ancorata ad alcuni ambienti precisi di artisti che da sempre continuano a lavorarci su, anche in maniera magistrale. L’opera di cui andiamo a parlarvi oggi s’incastra proprio in quest’ultima “categoria artistica”, elevandone le possibilità maggiori. Andiamo ad analizzare The House, dunque, nella nostra recensione.
Una casa dalle mille sfaccettature intimiste
Come suggerisce il titolo stesso al centro di The House troviamo proprio una casa. Con questo film, in uscita sul catalogo Netflix a partire dal 14 gennaio, ci troviamo davanti a un insieme di storie, tre per la precisione, il cui filo conduttore si origina da questa stessa casa nominata prima per approdare nelle varie analisi introspettive dei protagonisti che si susseguiranno. L’intera pellicola è stata realizzata in stop-motion, appunto, e ogni episodio porta la firma di un regista diverso. Questi sono: Emma de Swaef e Marc Roels, uno è diretto da Niki Lindroth von Bahr e un altro da Paloma Baeza. Il fatto che si tratti di storie apparentemente favolistiche con personaggi antropomorfi non deve ingannare lo spettatore sulla natura dell’intera opera, anche perché, ed è importante sottolinearlo in questa recensione di The House, ogni singola storia è ben lungi dall’essere indirizzata ad un pubblico di bambini.
Le atmosfere, ad esempio, sono tutte mirate a colpire lo spettatore, con uno scenario che pur essendo sempre lo stesso rispecchia perfettamente sia i protagonisti che vi si muovono che il periodo storico in cui è ambientata la storia in atto. Ogni racconto, poi, oscilla continuamente tra lo psicologico, con momenti in cui le varie singole nevrosi prendono il sopravvento anche sulla dimensione figurativa, e il cabalistico, con un incedere narrativo in cui può tranquillamente accadere qualsiasi cosa. Ognuna delle tre trame è introdotta da un titolo particolare che introduce gli eventi in maniera fumosa e invita a riflettere a posteriori su quello che accade sullo schermo. Ogni singolo racconto ha un suo significato finale, una sua particolare climax a rendere concettualmente sensato quanto si è visto fino a quel momento.
The House però non si limita a raccontare storie con una morale di fondo, come abbiamo visto anche nella recensione di Black Mirror ad esempio, qui si va be oltre le semplici riflessioni su quanto accade, sfruttando le possibilità espressive della stop-motion per entrare dentro allo spettatore stesso. Il tutto avviene attraverso scelte disturbanti, un montaggio soffocante e nevrotico, e la costruzione di ogni singola inquadratura sempre “ombreggiata” e in modo “sinistro”. Ne fuoriesce un contesto narrativo sporco e consumato, anche quando la casa stessa appare nuova di zecca c’è sempre qualche ombra, qualcosa di sbagliato e incombente, difficile da leggere. Ecco che i vari protagonisti si ritroveranno a fare i conti sempre con le proprie scelte, con loro stessi, con quello che vorrebbero fare e con quello che sono realmente. Tutto quello che li circonda diventa ben presto una vera e propria proiezione del proprio ego e maschera, finanche una riflessione che parte da contesti inesistenti per approdare inevitabilmente al presente, all’essere umano e a tutte le sue imperfezioni.
La ricercatezza inquietante
Come scritto anche sopra in The House, al centro di tutto0 – oltre alle varie storie- troviamo l’estetica attraverso cui vengono rappresentate. La stop-motion quindi si fa centrale non solamente di un processo creativo espressivamente nostalgico, ma anche di un vero e proprio veicolo di sensazioni ed emozioni da parte dell’occhio stesso che guarda. La perfezione nella resa generale di quest’opera è impossibile da non notare, con l’utilizzo sempre fluido della suddetta tecnica, accompagnata da un’attenzione, anche millimetrica in certi momenti alla costruzione scenica, alla fotografia, alla colonna sonora (con voci di rilievo quali quella di Elena Bonham Carter, ad esempio, o quella di Matthew Goodie) e ai singoli suoni in scena, alla regia e soprattutto alla scenografia. Il mondo in cui ci si muove di racconto in racconto è pressappoco sempre lo stesso. E’ il tempo a cambiare e l’approccio dei vari protagonisti, nonché la riflessione figurativa di ogni singolo regista. Chi sceglie un approccio più esoterico, con inquadrature e momenti atti a confondere, chi un approccio più psicologico, in cui la dimensione materiale in atto si scontra con quella emotiva e psicologica, chi un approccio più fantasioso e filosofico, in contrapposizione proprio alla dimensione materiale suddetta. Il lavoro estetico e lo stile generale sono la primissima cosa che colpiscono in The House, sia che si parli di ambientazione che dei suoi stessi protagonisti in un trattato apparentemente appartenente alla dimensione delle favole ma ben lungi da questo, immerso in una serie di incubi non troppo lontani dal cosiddetto “uomo moderno”.