Il nostro modo di giocare negli ultimi anni sta subendo un drastico cambiamento, che fino a pochi anni fa credevamo essere totalmente inimmaginabile. Ma cosa è successo di preciso? E per quale ragione? Indubbiamente rispondere a queste domande rappresenta un’impresa non di poco conto e ognuna di esse richiede un’analisi alquanto approfondita dell’intera situazione che stiamo attualmente vivendo. Nel panorama videoludico siamo costantemente alla ricerca di etichette e ricorriamo al bisogno di collocare un determinato titolo all’interno di uno spazio ben delimitato, consentendo in tal modo di poterci orientare tra la mole di titoli che ogni anno vengono pubblicati. Una distinzione che si sta facendo sempre più predominante riguarda quella tra i cosiddetti Tripla A e le grandi produzioni indipendenti, ovvero i Tripla I, che stanno modificando drasticamente le dinamiche a cui siamo abituati, costringendoci quasi a dover rivalutare le categorie che tanto ci aiutano nel processo di orientamento videoludico.
Insomma, mentre da un lato abbiamo le produzioni colossali che richiedono investimenti ogni anno maggiori, che crescono in proporzione ad una tecnologia via via più dispendiosa e che sempre più frequentemente esigono la pubblicazione di contenuti aggiuntivi per poter ricoprire le ingenti spese, dall’altro abbiamo le esperienze complete che i piccoli studi riescono ad offrire al giocatore, il più delle volte senza alcun costo aggiuntivo. Nel corso di quest’anno sono stati molteplici gli indie che hanno fatto parlare di sé e che in più occasioni hanno ricevuto finanziamenti anche da parte di grosse aziende quali Sony, Microsoft o Nintendo, fornendo dunque un supporto di tipo economico per niente indifferente. Il risultato è stato che le opere realizzate hanno conosciuto una nuova fama nonostante l’origine “low cost” dei progetti, discostandosi fortemente dall’idea generale che abbiamo di questa tipologia di videogiochi, che nel nostro immaginario risultano essere nella gran maggioranza dei casi caratterizzati da una grafica non particolarmente eccelsa o da un gameplay non poi così profondo.
Per l’appunto, proprio un piccolo gioiello quale Hellblade: Senua’s Sacrifice, realizzato da un team di appena venti persone, è stato in grado di dare una smossa all’industria videoludica, regalando un comparto tecnico semplicemente maestoso e degno di essere affiancato anche alle esclusive console di maggior rilievo, a riprova del fatto che anche di fronte a numeri esigui è possibile offrire esperienze di ampio respiro se in presenza dei mezzi adeguati e delle giuste idee. Il punto è che quanto realizzato da Ninja Theory non è che uno dei numerosi e variegati esempi che oggi sempre più spesso riescono a ritagliarsi un proprio angolo, dal momento che diverse aziende di rilievo come Square Enix o Ubisoft hanno addirittura messo in piedi piccoli studi con lo scopo di realizzare titoli di stampo maggiormente classico, dedicati a quella grossa schiera di giocatori che forse si sono in parte stancati della continua ricerca verso l’innovazione, perpetuata in modo quasi ossessivo negli ultimi anni. In effetti, è sufficiente vedere il successo che hanno riscosso titoli come Child Of Light, I Am Setsuna, Cuphead o Undertale, che per certi aspetti hanno rappresentato un vero e proprio fenomeno mediatico; assolutamente inaspettato se si considera il contesto di sfrenata ricerca tecnologica che stiamo vivendo, dove sembrerebbe che la rincorsa alla risoluzione maggiore o al framerate più alto sia l’elemento che principale di un gioco.
Un recente prodotto che ben esplica la situazione è Mass Effect Andromeda, in cui un comparto tecnico esattamente non all’avanguardia per un titolo di tale portata ne ha decretato in gran parte il fallimento, venendo brutalmente stroncato tanto dalla critica, quanto dai fan. Ma quindi, qual è effettivamente il problema di questi Tripla I? A mio personalissimo avviso è la grossa responsabilità che ha sulle spalle il team di sviluppo, che il più delle volte presenta delle dimensioni estremamente ridotte e che pertanto si ritrova costretto a lavorare a un progetto che subisce lo stesso impatto mediatico di un prodotto che viene invece realizzato in larga scala e con budget altrettanto elevati. Un esempio che mi viene in mente è No Man’s Sky, che pur ricevendo il supporto economico da parte di un’azienda come Sony è stato aspramente criticato dal pubblico e dalla critica, affossando di fatto un prodotto sul quale le aspettative erano state eccessivamente gonfiate, richiedendo troppo da Hello Games, software house composta da una quindicina di persone circa.
Pertanto, come possiamo leggere tutte queste apparenti contraddizioni che continuano quotidianamente a infestare i siti d’informazione e i modi di vivere il gioco da parte dell’appassionato o presunto tale? Ciò che salta all’occhio è che una buona fetta di giocatori effettivamente predilige una qualità grafica di prim’ordine, quella che in effetti ci si aspetterebbe da un Tripla A, ma che al contempo si stia rafforzando sempre di più la voce anche di quella fetta di nostalgici che desidera maggiormente un ritorno alle origini. Questo i grandi Publisher lo sanno, ed è la ragione per cui il concetto di Tripla I, e in generale quello degli indie classici,si sta facendo sempre più predominante, confermando ulteriormente quanto il giocatore non sia un’entità passiva nell’oceano di giochi che continuano a essere pubblicati, ma che può realmente contribuire con le sue scelte videoludiche alla direzione che l’industria deve prendere. Il ritorno a tipologie di generi vecchia scuola, così come una ripresa della cosiddetta pixel art, vanno visti dunque come un modo per andare incontro a chi è ancorato a un modo di giocare ben diverso da quello attualmente predominante.
In un certo senso, possiamo affermare che il videogioco sta vivendo una fase molto particolare, in cui è possibile percorrere due strade parallele in perfetta antitesi tra loro, proprio perché guidate da due filosofie ben diverse in cui il giocatore può scegliere la via che meglio si adatta al suo modo di vivere la sua passione. Ciò, chiaramente, non significa che i due concetti si escludano a vicenda, ma che al contrario possono contribuire in modi diversi a quello che è il videogioco nella sua forma più elementare. Giocare, in fondo, significa divertirsi, appassionarsi a una vicenda e ai suoi personaggi, piangere ed esultare con loro. Proprio per questo sono del parere che finché lo scopo rimarrà tale, e saremo di fronte a un prodotto curato, non avrà importanza la risoluzione, il numero di persone che hanno preso parte, o il budget galattico investito nella realizzazione. Sicuramente il rapporto che si è instaurato tra i Tripla A e i Tripla I può risultare controverso sotto molti aspetti, ed evidenzia fortemente le difficoltà a cui lo sviluppatore è costretto ad andare incontro e i rischi che deve prendere per tentare di accontentare il vasto ed eterogeneo pubblico, diviso tra l’effetto nostalgia e il desiderio di mettere le mani su un prodotto fresco e innovativo.
Occorre lavorare molto su una maggior delineazione dei campi, dei confini, e delle aspettative da parte degli appassionati, così come sul ruolo ancora poco chiaro che i Tripla I devono assumersi all’interno dei variegati generi videoludici. Il giocatore deve poi ricordare che il suo è un arduo compito e che il suo giudizio può essere fatale nel successo o nel fallimento di un determinato prodotto. È perciò necessario che egli stesso abbia la consapevolezza di ciò che si accinge a giocare, senza aspettarsi qualcosa che di fatto quel titolo non può offrirgli a causa di risorse limitate o per via di uno scopo ben diverso.
Personalmente non ho nulla in contrario né all’effetto nostalgico che gli appassionati di vecchia data stanno sperimentando, portando le software house a dargli il ben servito con titoli indie anche molto curati, né all’innovazione, che i giocatori sperimentano ogni giorno con titoli dalla grafica sublime e dal gameplay online. Piuttosto, sono del parere che bisogna abbracciare il videogioco in tutte le sue forme, trovando quotidianamente una ragione diversa per apprezzare tipologie di giochi anche ben distanti tra loro indipendentemente dalla loro etichetta.