Con Tron: Ares, diretto da Joachim Rønning e prodotto da Walt Disney Pictures, la saga di Tron prova a riaccendersi a quattordici anni di distanza da Tron: Legacy (2010) e più di quarant’anni dal cult originale di Steven Lisberger. Il film, interpretato da Jared Leto, Evan Peters, Greta Lee e con il ritorno di Jeff Bridges, tenta di riportare in vita l’immaginario digitale che ha definito una generazione di spettatori. Purtroppo, il risultato è un sequel che si allontana dallo spirito visionario e sperimentale che aveva reso unica la saga, scegliendo una via sicura, prevedibile e fin troppo derivativa. Scopriamo insieme in questa recensione come nasce e muore il “mito” di Ares.
Ares nasce come un nuovo punto di partenza per il franchise, ma finisce per sembrare un esercizio di stile privo di vera direzione. Il film prometteva di esplorare il confine tra intelligenza artificiale e umanità, ma si perde presto in una trama banale e personaggi senza spessore, incapace di ritrovare la scintilla che animava i capitoli precedenti.
Personaggi e interpretazioni
La storia segue Ares, un programma ribelle che attraversa il confine digitale per interagire con il mondo reale, un concetto sulla carta interessante ma sviluppato in modo superficiale. Il film introduce nuovi protagonisti, ma nessuno riesce davvero a emergere. Evan Peters, solitamente una garanzia, risulta sorprendentemente spento e dimenticabile. Greta Lee e Gillian Anderson fanno il possibile con ruoli appena abbozzati, ma la sceneggiatura non offre loro spazio per brillare.
Jared Leto, nel ruolo del protagonista, rappresenta forse l’unico vero punto di interesse: enigmatico, ambiguo, e per certi versi coerente con il tono più oscuro che il film vorrebbe mantenere. Ma la sua interpretazione non basta a salvare un cast che sembra intrappolato in una simulazione senza emozioni. È quasi ironico pensare che Leto, dopo aver contribuito a distruggere Suicide Squad con il suo Joker e a deludere in Blade Runner 2049, si ritrovi per la terza volta in un franchise che rischia di naufragare proprio per colpa di ambizioni mal calibrate.
Riflessioni tematiche e sociali
Sin dal 1982, Tron è stato sinonimo di innovazione visiva e riflessione sul rapporto tra uomo e tecnologia. Tron: Ares, invece, sembra dimenticare quella vocazione filosofica, sostituendola con una serie di riferimenti nostalgici agli anni Ottanta che suonano più come strizzate d’occhio forzate che come veri omaggi, per cercare di salvare il salvabile sfruttando l’ormai troppo abusato effetto nostalgia che da qualche anno sta demolendo la creatività ad Hollywood. Il film prova timidamente a interrogarsi sul ruolo delle intelligenze artificiali nel mondo contemporaneo, ma lo fa in modo superficiale, senza mai spingersi oltre la superficie estetica.

Dove il primo Tron rifletteva sulla libertà digitale e Legacy sul rapporto tra creatore e creatura, Ares si limita a citare concetti come “coscienza sintetica” o “umanità dei programmi” senza elaborare un vero discorso. La conseguenza è che Tron: Ares perde completamente la propria identità. Si posiziona come un prodotto ibrido: troppo serioso per essere puro intrattenimento, ma troppo confuso per offrire riflessioni significative. Un film che parla di futuro, ma con lo sguardo fisso al passato. Quella scintilla che si accese più di 40 anni fa con una vera riflessione sull’etica e la filosofia del rapporto tra uomo e macchina, tra creatore e creatura viene abbozzato e reso un pallido pretesto per fare un nuovo film.
Ritmo e aspetti tecnici
Dal punto di vista tecnico, Ares mantiene un livello produttivo alto, ma non all’altezza delle aspettative di una saga che ha sempre fatto dell’innovazione visiva il suo marchio. Le ambientazioni digitali sono curate ma mai sorprendenti, e la fotografia, fredda e desaturata, perde la luminosità iconica che contraddistingueva i precedenti capitoli. Tutte le scene nel mondo reale sono assolutamente dimenticabili.

Il ritmo è altalenante: la prima parte impiega troppo tempo per costruire un mondo che lo spettatore già conosce, mentre la seconda si affretta a chiudere linee narrative mai sviluppate. Il risultato è una visione che alterna momenti di azione spettacolari a lunghe sequenze prive di tensione. La colonna sonora, affidata ai Nine Inch Nails, cerca di evocare le atmosfere sintetiche dei Daft Punk di Tron: Legacy, ma senza la stessa potenza evocativa. Le tracce elettroniche sono ben prodotte, ma mancano di quella fusione perfetta tra suono e immagine che aveva reso iconica la pellicola del 2010.
Tron: Ares avrebbe potuto rappresentare una nuova rinascita per la saga, ma finisce per essere il suo capitolo più debole. Mancano il coraggio e la visione che avevano reso unico l’universo di Tron: qui tutto appare filtrato, sterilizzato, privo di vera anima. L’intento di ripartire da zero si trasforma in un reboot senz’anima, che guarda più al marketing che alla narrazione, ma poi, è davvero una buona idea puntare su un reboot di Tron nel 2025? Non c’era proprio nessun’altra saga che si poteva esplorare maggiormente? L’idea di un nuovo inizio appare più come una minaccia che come una promessa: se questa è la direzione che Disney intende intraprendere per il franchise, forse sarebbe meglio lasciarlo riposare nella memoria dei fan, dove la luce di Tron brilla ancora forte.