Quali sono le caratteristiche che definiscono un videogioco? E soprattutto quali di esse rendono un titolo degno di essere giocato? Queste domande, all’apparenza semplici, dispongono di una moltitudine incredibile di risposte possibili e di una varietà allucinante di interpretazioni. Chiaro esponente di una categoria tutta sua, che unisce la narrativa alla mera ricerca di un significato personale, è appunto Where The Water Tastes Like Wine, titolo indipendente sviluppato da Dim Bulb Games e Serenity Forge e il cui editore è Good Shepherd Entertainment. Durante lo scorso anno, precisamente dopo la Gamescom di Colonia 2017, vi ho già parlato di persona riguardo il titolo proprio grazie alla prova avvenuta in terra tedesca, esprimendomi a tal proposito in maniera entusiasta. A distanza di qualche mese l’appeal che il titolo riesce a suscitare su questo tipo di giocatori, un po’ poeti e un po’ romantici, è rimasto invariato… ma purtroppo con molte note dolenti – almeno per quanto riguarda la versione fornitaci per la review, che probabilmente non è quella definitiva al millesimo – sul piano tecnico, errori e sviste delle quali parleremo nel corso della nostra recensione. Preparate il fagotto, le scarpe buone e una bottiglia di Burbon, la strada da percorrere è davvero lunga.
Fin dalle prime immagini, dai primi suoni, dalle prime parole che leggerete e udirete in Where The Water Tastes Like Wine, sarà chiaro al giocatore che non si troverà di fronte un gioco come tutti gli altri. Ogni fibra del nostro essere sarà presa, rapita, intrappolata in un vortice di emozioni contrastanti, miscelando nell’esperienza forti tonalità blues. Senza preamboli alcuni, verremo messi di fronte alla porta di una sinistra casa di legno, impersonando un viandante con tanto di bastone e fagotto del quale il volto rimarrà nell’ombra. All’interno della casa si sta svolgendo una partita di poker molto particolare, ma quando ci accorgeremo di che tipo di partita si tratta… sarà già troppo tardi. Parteciperemo, arriveremo all’head’s up con un uomo in grigio, e perderemo anche con la migliore mano possibile. Com’è possibile? La nostra scala reale si è tramutata in alcune carte dei tarocchi… e le nostre si sono materializzate proprio nelle zampe del nostro avversario… un uomo con la faccia da lupo. Non possiamo coprire il nostro debito, ma questo oscuro licantropo ha già pensato a cosa fare di noi. Accetterà come pagamento delle storie, ma non delle storie qualsiasi. Stiamo parlando di storie vere, di racconti di persone che di fronte a noi hanno messo a nudo la loro anima, la loro vera entità. Ci spinge dunque a partire per un viaggio in tutto il paese, spogliati della nostra pelle e delle nostre carni, alla ricerca di qualcuno disposto a svelarci i suoi più profondi segreti.
Hard Times and Blues Rhymes
Anche se non viene esplicitamente detto, ci troviamo negli USA in un periodo a cavallo tra gli anni 60 e 70, dove il tenore di vita non è proprio ai massimi storici. Partendo dal nord est del paese, più precisamente dal Maine tanto caro a Stephen King, ci ritroveremo a vagare in lungo e in largo per la vastissima mappa, dove il nostro personaggio, i monti, città, case e poco altro saranno riprodotti in 3D. Il gameplay totale del gioco è il continuo susseguirsi di fasi di esplorazione, ricerca, e di racconto. Le persone delle quali dovremo carpire l’essenza dell’anima sono in totale 16, ognuna con un passato che li ha segnati e con un presente che ne è la diretta conseguenza.
Per fare in modo che queste persone si fidino di noi però sarà necessario del tempo, e dovremo raccontare loro delle storie descrivendo avvenimenti che abbiamo vissuto in prima persona durante il nostro peregrinare. Attenzione però: durante i dialoghi intorno al fuoco, i personaggi ci faranno delle specifiche richieste, e starà a noi, da buoni narratori, scegliere i racconti più adatti per soddisfare i loro bisogni emotivi. Parlando con essi, sarà presente un grande occhio chiuso in alto al centro dello schermo, che si aprirà man mano che le nostre storie appagheranno l’interlocutore di turno. Il tempo di ogni chiacchierata è limitato all’intera notte, alla fine della quale egli si rimetterà in viaggio, e potremo incontrarlo di nuovo in un altro posto che ci verrà da lui indicato. Il nostro scopo è quello di far aprire totalmente l’occhio di volta in volta, così da passare al capitolo successivo di ogni personaggio ad ogni incontro. I capitoli che segneranno i loro racconti sono tra i 3 e i 4 a testa (di difficoltà crescente), e a seconda di questo numero le loro storie saranno considerate più o meno interessanti quando le racconteremo ad altri. Ogni storia che potremo raccontare intorno al fuoco sarà riconducibile ad uno dei 16 temi generali che racchiudono le carte dei tarocchi, ma potremo “equipaggiarne” solamente tre per volta, scegliendo tra quelle a disposizione le migliori, o quelle che vogliamo far crescere in fama. Capiremo subito quando il capitolo che inizierà sarà l’ultimo di quel personaggio… perché lo vedremo trasformarsi nella sua forma interiore non appena ci siederemo con esso. Starà a voi interpretarle tutte.
Miles of Smiles
La fase di esplorazione e ricerca è anch’essa parte integrante del gioco: durante il nostro viaggio ci fermeremo di luogo in luogo e vivremo appunto delle strane vicende, durante le quali potremo anche prendere delle decisioni che molto spesso determineranno l’esito della storia in questione (a volte anche con conseguenze sulla nostra salute, sulla stanchezza o sul denaro a nostra disposizione). Ogni storia che raccoglieremo entrerà a far parte del nostro bagaglio, e ogniqualvolta la narreremo, potremo trovare in giro qualcuno che ce la racconterà un po’ alterata… già, la magia del passaparola. Quando le ascolteremo alterate pero’, acquisiranno molto più interesse, e raccontandole a nostra volta a uno dei personaggi otterremo più successo. Nelle grandi città, oltre a poter vivere una storia per ognuna, potremo anche rifocillarci e cercare di guadagnare qualcosa lavorando o facendo l’elemosina, ma anche sfruttare la stazione (pagando) per raggiungerne un’altra, ma potendo scegliere solo tra quelle collegate ad essa. Altri metodi per spostarci nella mappa, oltre alle care vecchie scarpe, sono i treni sui quali salire clandestinamente (a nostro rischio e pericolo, e con una sola destinazione possibile), e il sempreverde autostop. Non sarà possibile oltrepassare i grandi fiumi, se non in alcuni specifici punti che ce lo permetteranno. Purtroppo non tutto ciò di cui abbiamo parlato è stato creato a regola d’arte…
The Skeleton’s Struggle
Ad esempio mi è capitato più volte di rimanere incastrato a piedi in una location, o addirittura di finire per sbaglio in mare e non poter uscire, dovendo addirittura ricominciare il gioco (che salva in automatico i nostri progressi). Una delle caratteristiche che purtroppo fa perdere parte dell’atmosfera del titolo è la creazione troppo semplicistica degli elementi tridimensionali, come case, mulini, e le grandi città, che risultano essere un gigantesco blocco, che addirittura quando sarà coperto dal passaggio di una nuvola, diventerà monocolore. Le strade? Ovviamente solo le grandi statali, ma che per qualche arcano motivo vedranno le automobili spostarsi solamente in una direzione, rendendo a volte l’autostop utile solo per tornare indietro e non nella direzione che ci interessa. Altre spigolosità a livello tecnico sono diffuse per il gioco, come inspiegabili e non proprio radi rallentamenti e scatti, ma anche un bug che rende lentissima la rotella del mouse nei vari menù, e che rende maggiormente consigliabile la fruibilità del gioco utilizzando un pad. Nulla di eccessivamente complicato – strade a parte – e che non possa essere migliorato con una patch. L’ultimo dei problemi che potrebbe far “inceppare” il gioco, è una lentezza spesso abbastanza marcata negli spostamenti in generale, rischiando di stancare il giocatore. Per fortuna le decine di possibilità a schermo ci spingeranno ad andare “a braccio”, quasi a non pensare effettivamente a quale sarà il prossimo obiettivo da raggiungere, deviando più volte la strada senza un apparente motivo preciso.
Vagrant Song
Ciò che però rende Where the Water Tastes Like Wine un titolo così carismatico, è l’intera atmosfera che viene a crearsi grazie ad un comparto sonoro da applausi, probabilmente uno dei migliori in assoluto della scena indipendente mondiale! Badate bene che non mi riferisco solamente all’ispiratissima e quanto mai malinconica colonna sonora messa su dal già rodato Ryan Ike – al quale complimento l’idea di aver utilizzato una delle canzoni più volte, reinterpretata in voci, stile e lingua in base alla zona degli Stati Uniti dove ci troviamo, Vagrant Song – ma anche al cast di doppiatori da tripla A che il team ha saputo sfornare. In un gioco dove lo storytelling è tutto, la modalità della narrazione e la sua essenza sono a dir poco imprescindibili per la buona riuscita del prodotto. Ed ecco qui che si presentano al microfono voci più che note, come Melissa Hutchison (The Walking Dead di Telltale in primis ma anche Anna Graham in Deadly Premonition), Elizabeth Maxwell (The Legend of Zelda: Breath of the Wild), Kimberly Brooks (innumerevoli ruoli tra cui Ashley Williams nella serie Mass Effect), l’eterno Dave Fennoy (Rodin in Bayonetta e decine di altri titoli AAA), e, signore e signori, niente meno che Sting nel ruolo del lupo! Le sonorità blues e country riecheggiano nelle nostre orecchie durante l’interezza del gioco in viaggio, ma plasmandosi ad immagine e somiglianza dei nostri interlocutori quando saremo intorno al fuoco. Atmosfera da brividi. Sul piano grafico tuttavia ci troviamo divisi a metà, con la grande ispirazione contenuta in tutti i disegni fatti a mano, tutte le vignette e tutti i personaggi, che vanno a schiantarsi contro la realizzazione approssimativa del mondo di gioco, e di tutte le caratteristiche tridimensionali… compreso il nostro avatar.