La storia di Kojima Parte I – Quando sognare non costava nulla

Partiamo verso questo viaggio diviso in tre parti dedicato a Hideo Kojima, mente dietro a Death Stranding.

Marcello Paolillo
Di Marcello Paolillo Analisi Lettura da 9 minuti

Prima di Metal Gear Solid, prima di Death Stranding, c’era un giovane ragazzo nato a Setagaya, quartiere residenziale di Tokyo. Da sempre avido divoratore di cinema, Hideo Kojima aveva trascorso parte della sua infanzia a Osaka, poco prima di trasferirsi al di fuori della città. La morte del padre, all’età di soli 13 anni, lo ha messo subito di fronte alle ostilità della vita: la precarietà economica, unita alla scarsa considerazione dell’arte dei suoi parenti e i conoscenti, misero da subito il giovane Kojima dinanzi a un bivio: frenare sul nascere la sua indole creativa (la storia racconta infatti che esistono un gran numero racconti originali scritti di suo pugno e inviati a varie riviste, senza mai avere un riscontro pratico), oppure imboccare da subito un sentiero lavorativo che lo avrebbe portato chissà dove, chissà perché. Il sogno di Hideo era però uno e uno soltanto: diventare un regista. In quegli anni, i mezzi di comunicazione erano davvero scarsi e per riuscire a imporsi in un mercato misconosciuto come quello dei videogiochi era necessario uscirsene fuori con qualcosa in grado di stupire tutto e tutti.

A quei tempi – parliamo dei primi anni ’80 – iniziò a farsi strada sugli scaffali dei negozi giapponesi il Famicom, noto anche come NES a 8-bit. L’idea di emulare in un certo qual modo il suo “guru” Shigeru Miyamoto, andò di pari passo a un titolo in particolare – The Portopia Serial Murder Case di Yuji Horii – un thriller interattivo che colpì particolarmente Hideo. Forse, è proprio grazie a quel gioco che il giovane Kojima capì che l’unico modo per esprimere appieno la sua visione del medium videoludico era quello di raccontare belle storie (interattive). Entrare nel mondo dello sviluppo di videogiochi non era solo una passione, era diventata una vocazione. Inutile dire che tutti, dagli amici ai parenti più stretti, cercarono di far desistere Hideo da questa decisione a loro modo di vedere presa d’istinto, senza un minimo di calcolo o di amor proprio. Kojima se ne fregò: quell’industria era troppo attraente per uno come lui. Doveva provarsi, altrimenti il rimorso lo avrebbe consumato per il resto della sua vita.

L’anno cruciale per Hideo fu il 1986: Kojima fu infatti assunto nella divisione di Konami che sviluppava software per l’allora ben noto home computer MSX. Lì, l’ormai ben noto game designer partorì il suo primo, piccolo gioiello: Penguin Adventure. Si trattava, a conti fatti, di un platform-action dotato di un gameplay particolarmente accattivante per l’epoca (parliamo di un mix tra elementi RPG e giochi a piattaforme, con tanto di finali multipli). Andò peggio con il suo secondo progetto, Lost Waarld, un gioco di ruolo che fu letteralmente cestinato dai suoi capi. Fortuna volle che Konami propose a Hideo la realizzazione di un’avventura di stampo militaresco. La casa di sviluppo giapponese sapeva benissimo che un progetto del genere era particolarmente rischioso se realizzato su MSX – per via delle scarse capacità dell’hardware – tanto da dare a Kojima questa “patata bollente”. Nonostante le palesi difficoltà, Hideo decise di rimboccarsi le maniche, creando qualcosa che andasse controcorrente rispetto agli standard dell’epoca. Invece di dare alla luce un semplice sparatutto a scorrimento (tanto in voga in quegli anni), Kojima decise di raccontare la storia del soldato Solid Snake, inviato nello stato di Outer Heaven per fermare un’arma di distruzione di massa chiamata Metal Gear. Il film “La Grande Fuga” fu una delle ispirazioni cardine per Hideo, tanto che il risultato finale fu quello che oggi può essere definito senza mezzi termini come il primo gioco stealth della storia.

L’impatto commerciale fu realmente sorprendente: Metal Gear debuttò al quarto posto tra i giochi MSX più venduti in Giappone, tanto che persino le riviste dell’epoca premiarono il coraggio e l’originalità di questo gioco così diverso dal resto degli shooter a tema bellico. Un porting per NES non si fece attendere troppo a lungo, sebbene l’assenza della supervisione di Kojima portò a un inevitabile imbastardimento dell’opera originale. Le vendite si rivelarono in ogni caso soddisfacenti, con ben un milione di copie piazzate sul suolo nordamericano. Konami capì di avere tra le mani una gallina dalle uova d’oro: la compagnia ordinò infatti subito lo sviluppo di un sequel chiamato Snake’s Revenge, sebbene fu deciso che Hideo Kojima doveva rimanere al di fuori del progetto. Il perché è presto detto: l’autore avrebbe dovuto lavorare a tempo pieno su un titolo di stampo cyberpunk, un mix tra Blade Runner e Terminator: Snatcher. Si trattava di una visual novel che raccontava le vicende di un detective privato della memoria e intento ad indagare su una serie di misteriosi omicidi commessi da un cyborg. Il gioco fu pubblicato per MSX2 e NEC PC, oltre a una successiva versione per SEGA CD. Snatcher è ad oggi considerato un piccolo cult, sebbene ai tempi le vendite furono ritenute alquanto insoddisfacenti.

Il destino di Hideo era però legato a doppio filo al vecchio Metal Gear: un programmatore che stava lavorando al seguito del gioco decise infatti di chiedere “aiuto” a Kojima, tanto che il nostro decise di tornare in Konami portando la “sua” visione del futuro della saga. Metal Gear 2 stava quindi per diventare realtà, un gioco che permise a Hideo di iniziare a farsi conoscere agli occhi del mondo intero, fuori dai confini giapponesi. Il gioco si rivelò infatti una piccola, grande perla di design: le meccaniche del primo episodio furono ampliate a dismisura, oltre a tutta una serie di piccole chicche che verranno poi riprese anche nei capitoli moderni (le prime conversazioni al codec, allora chiamato “transceiver”). Anche l’intelligenza artificiale dei nemici IA, ora in grado di pattugliare intere zone di gioco e di accorgersi dei suoni emessi del protagonista, era una cosa ai tempi mai vista prima. Metal Gear 2: Solid Snake uscì su MSX2 nel 1990, ottenendo un successo senza precedenti, sebbene in occidente il gioco arrivò solo nel 2006 (come bonus extra del disco Persistence di Metal Gear Solid 3: Subsistence), colpendo quindi solo la categoria dei retrogamer incalliti o fan sfegatati della saga.

Nel 1994, Kojima si approcciò nuovamente alla scrivania per creare due titoli altrettanto particolari: il primo è Policenauts, un’ avventura grafica già nella mente di Hideo dai tempi di Snatcher. Anche in questo caso abbiamo a che fare con una detective story dalle tinte sci-fi, pubblicata per PC-9821 nel 1994. Un remake è poi uscito per 3DO nel 1995, ed un altro per PlayStation e Sega Saturn nel 1996. L’avventura grafica in questione non ha purtroppo mai varcato i confini giapponesi, nonostante vari tentativi di traduzioni amatoriali da parte dei fan occidentali. Se invece vi state chiedendo qual è il “secondo progetto” che Kojima aveva in mente, la risposta è semplice: una trasposizione tridimensionale della serie Metal Gear. Siamo ancora ben lontani dal leggendario capitolo apparso sulla prima PlayStation, visto che il gioco avrebbe dovuto debuttare per 3DO Interactive Multiplayer. I tempi, quindi, non erano ancora maturi. I poligoni e il 3D stavano per prendere il sopravvento, ma Konami non aveva ancora capito di avere tra le mani un gioco (e un game designer) che avrebbero cambiato per sempre il mondo dei videogiochi. Questo, prima della storica presentazione del nuovo Metal Gear al Tokyo Game Show 1996, subito prima di atterrare a Los Angeles lo stesso anno, in occasione dell’altrettanto indimenticabile Electronic Entertainment Expo. Ma questa è un’altra storia.

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Da anni critico del settore, ha scritto e scrive attualmente su diverse testate online dedicate ai videogames e al cinema, passando anche per i fumetti. La carriera di Marcello inizia nel 2003 e da allora non si è più fermato: dopo essersi fatto notare sui primi siti di settore, è arrivato a firmare articoli per le più importanti testate web italiane, oltre che per la carta stampata. Pavo non è il suo nome anagrafico: è il suo nome vero.