Nel mondo dei videogiochi, un concept brillante può essere il primo passo verso la creazione di esperienze memorabili. Un’idea innovativa può catturare l’attenzione dei giocatori e e porre le basi per ore di divertimento e meraviglia. Tuttavia, non sempre la realizzazione riesce a mantenere le promesse iniziali. Alle volte, problemi tecnici, scelte di design discutibili, problemi di sviluppo o una semplice mancanza di risorse trasformano potenziali capolavori in delusioni cocenti. In questo articolo andremo ad analizzare alcuni titoli che, nonostante un concept di base interessante non sono riusciti a fare centro, rivelandosi dei progetti mediocri e fallimentari.
Anthem
Ormai di Anthem non si parla più, ma è impossibile non ammettere che i primi video gameplay mostrati erano decisamente interessanti. L’elemento che colpì tutti, nello specifico, era il sistema di volo, e una volta che il titolo venne rilasciato, il suo grande potenziale venne confermato pad alla mano. Anthem è a tutti gli effetti la cosa più vicina a un gioco con protagonista Iron Man, e a conti fatti le fasi di volo sono senza ombra di dubbio la cosa migliore del titolo. Tutto il resto, purtroppo, è appena abbozzato.
Mentre si gioca ad Anthem risulta sempre più chiaro, mano a mano che si prosegue, come BioWare non avesse la minima idea di come sfruttare l’incredibile potenziale che aveva tra le mani, tant’è che il sistema di volto è stato più volte rimosso e durante le varie fasi di sviluppo. Il problema principale di Anthem è proprio legato alla sua produzione, con BioWare che stava lavorando contemporaneamente a Mass Effect: Adromeda, Dragon Age 4 e proprio Anthem. Questo provocò diverse pressioni interne al team e, la conseguenza di ciò, fu l’addio di alcuni membri che abbandonarono il progetto in corso d’opera.
Una volta arrivato nei negozi era evidente come Anthem fosse solo un embrione di ciò che sarebbe potuto essere. Il sistema di combattimento era appena accennato, le interazioni con i personaggi erano ai minimi storici rispetto agli standard di BioWare e il sistema di grind rendeva il tutto ripetitivo e noioso dopo poche ore di gioco. A questo si aggiunge un sistema di combattimento poco soddisfacente che non sfrutta appieno le abilità di volto del personaggio controllato dal giocatore. Anthem è stato così fallimentare come progetto da spingere EA a rimuovere ogni componente multigiocatore dal quarto capitolo di Dragon Age.
Resident Evil 6
Negli ultimi anni la saga di Resident Evil sta vivendo una vera e propria seconda giovinezza, tra i remake di successo dei capitoli 2, 3 e 4 e il prosieguo della saga con settimo e ottavo, apprezzati per aver variato la formula classica con una prospettiva in prima persona e nuovi tipi di nemici. Ma c’è stato un periodo nel quale Resident Evil ha rischiato di perdere la sua essenza da survival horror virando su un più classico e inflazionato action/sparatutto in terza persona. Il punto di rottura definitivo fu rappresentato, senza ombra di dubbio, da Resident Evil 6.
Il sesto capitolo numerato del longevo franchise di Capcom aveva messo da parte tutta la componente horror che da sempre contraddistingueva la serie, facendo spazio a un titolo d’azione dalla natura fortemente testosteronica. Sequenze action che sembrano dirette da Michael Bay, zombie in grado di utilizzare armi da fuoco, inseguimenti al cardiopalma ed esplosioni a non finire. Elementi che, con Resident Evil, ci azzeccavano poco o nulla. Nonostante questo, l’idea alla base di Resident Evil 6 era, potenzialmente, vincente.
Il titolo permette di vivere la medesima storia attraverso gli occhi di quattro personaggi differenti, Leon Scott Kennedy, Chris Redfield, Jake Muller e Ada Wong, ognuno accompagnato da un diverso personaggio secondario (elemento che apriva le porte alla componente multiplayer). La possibilità di vedere la medesima storia raccontata da più punti di vista, con tanto di incroci tra personaggi visti da prospettive diverse, rende la storia davvero intrigante e solo giocando tutte e quattro le campagna si ha un’idea chiara della storia. Inoltre il sistema di shooting è nettamente migliorato rispetto ai due capitoli precedenti, ponendo le basi agli eccellenti remake rilasciati diversi anni dopo. Se l’intero gioco avesse mantenuto le atmosfere delle prime missioni con Leon, staremmo parlando di uno dei capitoli migliori della serie.
Batman & Robin
Prima della nascita di uno dei franchise videoludici più apprezzati di sempre, ossia la serie Batman Arkham, il Cavaliere Oscuro è stato protagonista di diversi videogiochi alquanto discutibili, in termini di qualità. Tra questi è impossibile non citare Batman & Robin, titolo rilasciato nel 1998 sulla prima PlayStation e tratto dall’omonimo film. Il titolo in questione, nonostante la sua pessima qualità, aveva diversi elementi che lo rendevano avveniristico. Il gioco utilizzava infatti elementi sandbox come eventi in tempo reale e presenza di civili e auto per le strade di Gotham.
Il giocatore può scegliere uno dei tre eroi del film, Batman, Robin o Batgirl, e ogni personaggio utilizza un veicolo unico. Batman guida la Batmobile, Robin la motocicletta Redbird e Batgirl la Batblade. Nel gioco, la maggior parte delle missioni non viene attivata, ma ogni evento si verifica in un determinato momento. Per esempio, la rapina in banca di Mr. Freeze avviene alle 19:00 e il giocatore è chiamato trovare indizi e scoprire dove si terrà e come prevenirla. Se il giocatore non dovesse riuscire a trovare abbastanza indizi in tempo si verifica l’evento, fallendo la missione. È quindi possibile prevenire alcuni eventi, cercare di salvare la situazione in corso d’opera o arrivare sul luogo a danni fatti.
Tutto molto bello, peccato che il gioco fosse troppo avanti per i tempi che correvano. Il sistema di combattimento era legnoso, i veicoli inguidabili e il motore di gioco non riusciva a stare al passo con le grandi idee messe sul piatto dagli sviluppatori. Un peccato, perché il potenziale c’era, ma in ogni caso questo titolo è senza ombra di dubbio migliore dell’omonimo film dal quale è tratto.
Alpha Protocol
Titolo sviluppato da Obsidian Entertainment. Alpha Protocol aveva tutte le carte in regola per diventare uno dei più grandi giochi di ruolo della storia e, per certi versi, lo è. Al giorno d’oggi vengono rilasciati giochi di ruolo che “di ruolo” hanno poco o niente, ma nel 2010 Alpha Protocol dava al giocatore la possibilità di decidere davvero come sviluppare il proprio personaggio, con scelte morali che avevano davvero un peso sullo sviluppo della trama e sul destino dei personaggi protagonisti.
Le conversazioni avvengono in tempo reale, dando al giocatore una quantità di tempo limitata per rispondere ai punti decisionali chiave. Il sistema di dialogo nel gioco, noto come Dialogue Stance System (DSS), consentiva al giocatore di scegliere uno dei tre approcci, ma alle volte era disponibile una quarta opzione di dialogo “speciale”. I dossier consentivano ai giocatori di acquisire una maggior conoscenza dei personaggi prima di poter interagire con loro e ogni personaggio reagirà in modo diverso ai vari approcci del protagonista, favorendolo o ostacolandolo. L’incredibile quantità di possibilità e scelte si traduce nei 32 finali di gioco possibili.
Cosa c’è, quindi, che non va in Alpha Protocol? Il fatto che sì, è un eccellente gioco di ruolo, ma un mediocre action-RPG. Oltre ai numerosi bug, Alpha Protocol soffriva di un gameplay con meccaniche tutt’altro che interessanti, scontri a fuoco pessimi e missioni noiose e ripetitive. Non un grande biglietto da visita per un titolo che si ispirava alle opere di spionaggio con protagonisti Jason Bourne, Jack Bauer e James Bond.
Mirror’s Edge Catalyst
Il primo Mirror’s Edge fu un vero e proprio fulmine a cielo sereno, un’opera sorprendente che affascinò tutti coloro che ebbero modo di giocarci. Il free-running era divertente e il mondo di gioco era parecchio originale, ma nonostante questo non era di certo privo di difetti, basti pensare alle (fortunatamente poche) fasi di scontro corpo a copro e di shooting, a dir poco pessime. Il sequel, Catalyst, aveva il potenziale per prendere quanto di buono fatto con il primo migliorando quegli elementi che non funzionavano, ma dato che si trova in quest’articolo avrete intuito che non è andata così.
Se la componente che rese così apprezzato il primo è rimasta sostanzialmente invariata, ossia il parkour, quello che rende Catalyst un disastro è l’aggiunta del free roaming. Il caratteristico mondo di gioco del primo capitolo ha fatto spazio a un’ambientazione tra le più anonime del panorama videoludico, un vero e proprio labirinto di edifici e corridoi che rende l’esplorazione della mappa decisamente frustante. A questo si aggiungono missioni secondarie tutte identiche tra loro e fasi sparatutto e di combattimento corpo a corpo persino peggiori rispetto al precedente capitolo, anche a causa di un’IA dei nemici a dir poco imbarazzante.
Infine, l’aggiunta dell’albero delle abilità è il perfetto esempio di come EA abbia cercato di arricchire il titolo di elementi alquanto inutili, rendendo l’esperienza di gioco tutt’altro che interessante, quando il primo Mirror’s Edge faceva della sua semplicità il suo cavallo di battaglia. Una serie che aveva un potenziale enorme visto il concept di base, ma difficilmente vedremo un nuovo tentativo da parte di EA di investire nuovamente su di essa.
Alone in the Dark (2008)
Una cosa che non è stata detta per quanto concerne Catalyst e che quest’ultimo fungeva da reboot della serie. Contando che di Mirror’s Edge ne era uscito soltanto uno, questa risulta una scelta quantomeno discutibile. Alone in The Dark del 2008, invece, era un reboot che aveva sulle spalle già quattro capitoli della serie, i quali erano stati surclassati a livello di popolarità da Resident Evil e che aveva dato tutto il possibile con quel sistema di gioco. Riprendere in mano la saga e rivoluzionarla, in questo caso, era la scelta più giusta, ma con Alone in the Dark del 2008 si è, forse, osato troppo.
L’elemento più interessante dell’intera esperienza è senza dubbio l’incredibile libertà di interazione con l’ambiente circostante. Il giocatore può raccogliere qualsiasi oggetto (come tubi, sedie, assi di legno ecc…) e usarlo come arma da mischia. Tali armi possono essere utilizzate in vari modi, per esempio è possibile utilizzare un estintore sia negli scontri sia per spegnere delle fiamme. Alcuni oggetti possono essere combinati anche per creare armi improvvisate, come uno spray medico e un accendino che danno vita a un lanciafiamme di fortuna. Il fuoco, inoltre, viene generato in tempo reale e, qualora non dovesse essere domato in tempo, esso continuerà a rigenerarsi.
Il titolo dà la possibilità al giocatore di vivere l’esperienza sia in prima che in terza persona e integra un sistema di inventario unico nel suo genere: il corpo del protagonista, attraverso il quale avremo modo di vedere quali oggetti abbiamo a disposizione e quali ferite abbiamo (e la loro gravità). Il giocatore può usare uno spray medico o, se le ferite sono troppo profonde, usare delle bende per curarsi. Se Edward subisce troppi danni, lo schermo lampeggerà in rosso e si sentirà un battito cardiaco che indica che il personaggio sta per morire dissanguato. Infine, il titolo ha una struttura da “serie TV in DVD” e dal menù sarà possibile selezionare qualsiasi punto della trama dal quale iniziare a giocare.
Tutte meccaniche che non si sono più riviste in altri titoli usciti successivamente, il che rende Alone in the Dark unico nel suo genere. Peccato per la pessima realizzazione tecnica, con la presenza di numerosi bug e crash, per un sistema di shooting appena abbozzato e delle fasi di guida frustranti. Un titolo “strano”, ma proprio per questo affascinante nella sua unicità.
Marvel’s Avengers
Questo è probabilmente il perfetto esempio del concetto che sta alla base dell’articolo. Marvel’s Avengers aveva tutte le carte in regola per essere un grande titolo, tra i migliori con protagonisti dei supereroi fumettistici. Il titolo ci dava la possibilità di controllare tra i più iconici eroi di casa Marvel, resi ancor più celebri dal Marvel Cinematic Universe proprio in quegli anni. Con i supereroi Marvel al picco della loro popolarità, sembrava impossibile poter fallire, viste anche le sapienti mani di Crystal Dynamics e i fondi messi a disposizione da Square Enix.
La natura fallimentare del progetto, però, si può riassumere con due parole che negli ultimi anni sono diventate elemento di discussione tra gli appassionati: live service. Marvel’s Avengers, infatti, era sostanzialmente questo, un titolo GaaS che al lancio proponeva pochi contenuti con l’intento di offrirne di nuovi nel corso dei successivi mesi. E questo è effettivamente successo, dato che i contenuti post-lancio sono numerosi e validi, ma non era quello che i fan volevano. Il concetto di Game as a Service funziona benissimo con titoli free to play multiplayer come Fortnite, Genshin Impact e Call of Duty: Warzone, i quali basano la loro fortuna sugli acquisti in-game.
Lo stesso non si può dire dei titoli single player e, a conti fatti, i fan volevano avere un’esperienza narrativa d’impatto con un gameplay solido già al lancio, com’era avvenuto con la serie di Batman: Arkham e lo Spider-Man targato Insomniac, cosa che però non è avvenuta. La componente online del titolo, inoltre, presentava un matchmaking problematico, opzioni approssimative in termini di progressione e un continuo riciclo di ambienti e nemici. Gli aggiornamenti e update successivi hanno migliorato la situazione con l’aggiunta di nuove missioni e supereroi, ma il danno ormai era fatto, perché se un titolo single player non funziona al lancio, allora colui che l’ha acquistato passerà al prossimo titolo e difficilmente tornerà a giocarlo.
Daikatana
Oggi forse il nome di John Romero non vi dice nulla, ma negli anni ’90 era una delle personalità più influenti e di spicco del panorama videoludico. Co-fondò id Software avendo un ruolo di primo piano nello sviluppo dei primi titoli della software house tra cui Wolfenstein 3D, Doom, Doom II, Hexen e Quake . Se oggi esistono ancora gli sparatutto in prima persona (e sono ancora così popolari) è anche grazie a lui.
I presupposti per far sì che Daikatana diventasse l’ennesimo capolavoro targato John Romero c’erano tutti, peccato che il titolo si rivelò una delusione così cocente da mettere sostanzialmente la parola fine alla carriera ad alti livelli dello sviluppatore. Anche qui, però di idee interessanti e avveniristiche ce n’erano parecchie, basti pensare al fatto che ogni missione si svolgesse in un’ambientazione ed epoca storica differente, un concept alquanto innovativo per l’epoca. Di base, però, il titolo venne schiacciato dalla sua stessa ambizione e da un John Romero che, fin troppo consapevole delle sue abilità, basò l’intera campagna pubblicitaria dell’opera sul suo nome.
Lo sviluppo del titolo durò ben due anni, durante i quali ci furono numerosi problemi interni al team, con vari membri che decisero di abbandonare il progetto ben prima che venisse ultimato. Il risultato è uno dei peggiori videogiochi della storia, con IA di alleati e nemici pessima, una componente tecnica insufficiente anche per gli standard dell’epoca (il titolo venne rilasciato nel 2000) e un gameplay che nulla aveva a che vedere con i precedenti progetti di Romero. Se possiamo trarre un insegnamento da Daikatana è che l’arroganza non porta mai a buoni risultati.