Neversong è un titolo singleplayer rilasciato per Nintendo Switch, PC (anche Linux e Mac OS), Xbox One e PlayStation 4, e nonostante la sua natura indie, ha saputo presentarsi come una produzione assai interessante già prima del suo avvio. Infatti, in origine Neversong era conosciuto con un altro nome: Once Upon a Coma. Il titolo venne inizialmente finanziato tramite una campagna Kickstarter e rappresenta un vero e proprio sequel del flash game “Coma”, ideato e sviluppato da Thomas Brush, developer che affiancato da Serenity Forge e dal suo piccolo studio Atmos Games.
La passione per i videogiochi di quest’uomo però, lo ha portato a espandere sempre più la sua creatura, creando il prodotto che vediamo oggi: Neversong. Per chi non dovesse averne mai sentito parlare, potremmo riassumere la produzione come un viaggio introspettivo, che punta alla ricerca della nostra metà, il tutto affiancato a un comparto ludico che mette insieme elementi conosciuti di altri titoli indie e non. Basti pensare a Undertale, Hollow Knight, Inside e The Legends of Zelda, ma non si tratta di una mera copia carbone delle meccaniche di questi titoli, quanto piuttosto di una loro reinterpretazione. Dunque, essendo Neversong un’esperienza ibrida, potremmo definirlo come un puzzle game con elementi action e da metroidvania. Ora però basta con i preamboli, è giunto il momento di guardare più approfonditamente tutto ciò che l’opera punta a offrire.
Un viaggio comatoso
Neversong inizia con una piccola cutscene in rime, che riassume l’incipit della trama in modo magistrale. Si percepisce fin dall’inizio l’aria cupa del gioco, ma anche piccoli momenti di spensieratezza, dati dall’infantilità dei personaggi. Noi saremo Peet, un ragazzino “piccolo e impaurito”, che ha la fortuna di fidanzarsi con Wren: la ragazza più bella del paese. Insieme, i due vivono momenti felici, dopo un’infanzia rubata da un orfanotrofio; ma ovviamente, la gioia non può durare per sempre. Un giorno, i due decidono infatti d’intrufolarsi in un manicomio abbandonato, finendo con l’imbattersi in un uomo dal volto bianco e deforme che rapisce Wren. Il nostro piccolo protagonista non brilla per la sua intraprendenza o il proprio coraggio e anzi, per lo spavento finisce con l’entrare in uno stato comatoso. Al suo risveglio, le cose non sono più come prima, ma una cosa è certa: lui è l’unico che può salvare la ragazza.
Il gioco inizia quindi con un risveglio, in un luogo a noi completamente sconosciuto. Per introdurci ai titoli di testa e alle meccaniche base di Neversong, gli sviluppatori hanno deciso di farci ripetere le stesse azioni ma cambiandone il risultato, un po’ in stile P.T. L’aria che si respira ha un gusto d’inquietudine e oppressione, quasi terrore. Ma alla fine ci addormentiamo di nuovo, solo per poi risvegliarci ancora una volta… forse. Questa volta riconosciamo il posto: è casa di Wren, vediamo il suo pianoforte. È possibile suonarlo, se si ha lo spartito giusto, così da ottenere dei premi. Queste canzonette vengono trovate nel corso dell’avventura, la quale ha puntato tutto su un incedere degli eventi piuttosto lineare.
All’inizio saremo disarmati e ci sarà concesso girovagare per la cittadina, parlare con amici, ricordare chi ci è amico e chi no. Ma soprattutto, potremo chiedere a tutti “Dov’è Wren?“, seppur nessuno ci darà la risposta che vogliamo; sì, perché per molti la nostra metà è morta. Questo però non ci scoraggia. Raccogliamo una mazza da baseball e andiamo avanti nella nostra ricerca disperata.
Come dicevamo, le cose non sono come ce le ricordavamo, ora ci sono degli strani ragni arancioni ostili, facili da battere, come quasi tutti i nemici del gioco. Gli sviluppatori non si sono infatti concentrati poi molto sulla componente action, quanto piuttosto sul lato puzzle e sulla narrativa, una decisione che alla fine dei conti ci sentiamo di premiare. Andare avanti e indietro per la mappa è inquietante, quasi pesante, fa venire voglia di lasciare il pad e arrendersi. Eppure continuiamo per la nostra strada, senza una meta precisa. I puzzle non sono così tanto complicati, ma nel caso non si abbia mai concluso un qualsivoglia enigma in vita propria, il tutto potrebbe annoiare in fretta. Diciamo che gli indovinelli preparati servono a far sentire il giocatore come Peet: stanco, in un modo che non gli appartiene, ma determinato. Quando si parla con gli altri NPC ci sono delle piccole scelte di dialogo, a volte non così importanti, ma comunque capaci d’offrire una certa personalità al susseguirsi degli eventi.
Tecnicamente un buon titolo
Dal punto di vista grafico la produzione non eccelle, identificandosi come un “semplice” titolo bidimensionale. Ciò che offre però un certo carisma ai vari scenari sono i colori e lo stile scelto, con una palette cromatica che si muove spesso dall’arancione al marrone, passando per il rosso. I vari protagonisti si caratterizzano per delle forti connotazioni di bianco (così tanto da sembrare cadaveri) e per degli occhi senza iride, in sostanza solo dei grossi cerchi pieni di nero. Questo potrebbe stare a rappresentare la vita di un bambino orfano, alla quale è stata rubata la gioia di avere una famiglia, e di conseguenza i suoi occhi sono completamente svuotati del loro essere infantili.
Scelte stilistiche azzeccate a parte, il titolo è assai leggero. Solo all’avvio della partita la PlayStation 4 ha “faticato” a caricare la cutscene, causando leggeri cali di frame, ma durante l’avventura non siamo incappati in alcun tipo di problema, indipendentemente che si parlasse di bug, glitch o frame-rate. Voltando pagina, l’audio è davvero ottimo. La musica e gli effetti sonori mettono molta inquietudine e si sposano bene con ciò che vediamo a schermo. Purtroppo ci sono poche tracce musicali, ma bisogna anche dire che la risicata durata dell’opera non avrebbe giustificato una soundtrack particolarmente ricca. Dunque, alla fine, è stata una scelta saggia, seppur opinabile.
Arriviamo, dunque, alla fine di questa recensione e poniamoci la fatidica domanda:”Ne vale la pena?“. Per quanto ci riguarda è un sì. Alla fine dei conti siamo davanti a un titolo semplice, che punta moltissimo sulla trama, piuttosto che all’implementazione di meccaniche di gameplay particolarmente hardcore. Quindi, è possibile dire che sia adatto a tutti, ma con un occhio di riguardo verso chi desidera un’esperienza story-driven.
Neversong è una storia cupa. A tratti triste e a tratti spensierata. Tutti i protagonisti sono ben caratterizzati, nel loro essere bambini. E questo rende il titolo una piccola perla da non perdere per nessuna ragione al mondo. Ovviamente, se siete giocatori che vogliono avere tra le mani un prodotto con profondità di gameplay e capace di tenervi impegnati per innumerevoli ore, fareste meglio a cercare altrove. In caso contrario, il suo prezzo è assolutamente abbordabile e onesto per l’esperienza proposta.