Stiamo vivendo un periodo piuttosto particolare per lo sviluppo dei videogiochi, sviluppo che, in moltissimi casi, cerca sempre di seguire particolari trend, particolari mode stilistiche, formulando idee dettate dal gusto comune e da quello che i giocatori preferiscono, approdando in un mercato che si muove inevitabilmente per fasi. Queste, partendo dal successo di specifici prodotti, alle volte saturano la situazione con creazioni estremamente simili, anche stucchevolmente uguali, figlie di una produzione che non vuole troppo osare, ma puntare sull’analisi delle preferenze degli appassionati, spingendo questa “catena produttiva” a una ripetitività sicura dai tratti facilmente riconoscibili. Con Gunnhildr, sviluppato da RatDog Games, ci troviamo davanti a una cosa del genere, a un videogioco che attinge dall’immaginario commerciale contemporaneo senza osare troppo, senza distanziarsi da parecchi altri lavori che al giorno d’oggi continuano ad affollare gli store online.
Si tratta di una sorta di roguelike in cui il giocatore dovrà affrontare, con una proceduralità classicissima, una pluralità di ambientazioni e nemici riconoscibili non soltanto nella loro struttura tecnica, ma anche e soprattutto nell’estetica che li disegna, con chiari rimandi a titoli di questo stesso periodo (PositronX ad esempio), costruiti su basi ed intenzioni identiche. L’unica differenza è che qui il tutto viene delineato e canalizzato da una narrazione che sullo sfondo vuole approfondire una situazione generale abbastanza semplicistica nel suo incedere.
Fin dal primissimo avvio di Gunnhildr il giocatore viene catapultato negli eventi della sua trama, della sua narrazione che si snocciola attraverso le spire di un filmato introduttivo chiaro e diretto, quasi old school nella maniera in cui viene narrato e presentato. Quello che colpisce non è tanto la storia in sé, quanto il fatto che abbiano attinto direttamente dalla mitologia norrena per costruirsi. Il tutto si palesa nel linguaggio utilizzato per descrivere quanto avviene, con nomenclature, sostantivi e identificativi provenienti dalle leggende più celebri dell’Edda poetica et similia, modellate però sugli eventi e su quanto accade nel mondo di gioco. La classicità di questo filmato introduce perfettamente il mood generale di un videogioco che fin dal principio, nei suoi intenti, sembra figlio di un’altra epoca.
Il mondo in cui ci si muove è disegnato da un’estetica abbastanza semplice, che ispira sensazioni da “arena” piuttosto che di “strada verso la libertà”. Nell’introduzione ci viene spiegato che il pianeta su cui il tutto prende luogo è sul ciglio della distruzione, e che per salvarlo dalla sua fine la nostra protagonista è andata contro il volere degli Dei. La determinazione di Gunnhildr, questo il suo nome, però la condannerà alla prigionia, e all’etichetta di traditrice ai loro occhi. Gli eventi prendono luogo proprio da questo punto, dalla cella in cui si trova, e dovremo entrare nei suoi panni per condurla verso una sorta di rivalsa personale e “giusta”, nonché socialmente impegnata.
Ad approfondire i dettagli di quanto ci avviene intorno abbiamo la squillante voce di Lucky, il quale si dimostrerà fin dai primissimi istanti non soltanto un attento e sarcastico Virgilio, ma anche un fondamentale aiuto pratico nelle situazioni da affrontare per avanzare. La sua voce farà da sfondo al nostro viaggio, frapponendosi tra la pericolosità delle situazioni e dei nemici, e i momenti di silenzio, rari.
Sparare con i laser nordici…
Una delle caratteristiche più curiose di questo Gunnhildr risiede proprio nel connubio tra leggende nordiche e contesto di gioco. Questo si sviluppa in un continuo scontrarsi fra le parole della narrazione e tutti gli elementi fantascientifici ad incorniciare e delineare ogni nostra azione. La fantascienza non si esprime soltanto attraverso l’ambientazione e le armi da fuoco, ma soprattutto attraverso il sound design di ogni singolo oggetto a schermo e della protagonista stessa quando si muove ed esegue qualche azione (come l’atterraggio metallico dopo ogni salto, ad esempio). Questa fusione di stili piuttosto ridondante stona con la narrazione principale introduttiva, la quale parrebbe annunciare un gioco del tutto diverso. Una fusione non troppo riuscita, quindi.
Parlando del gameplay, si tratta di un classico FPS, sviluppato lungo livelli che si muovono in una ripetizione procedurale legata alle sconfitte in game. Il tutto approfondito da caratteristiche pseudo-gdr con armi particolarizzate da elementi che impattano sui danni e sull’utilizzo, visibile a schermo. Il sistema legato a queste, poi, non si basa sul risparmio di proiettili, bensì su un sistema di riscaldamento disegnato da una barra specifica da tenere continuamente d’occhio, riscaldamento condizionato dal loro utilizzo, e dai materiali conservati, gestibile attraverso alcune semplici azioni. La scelta di gestire le risorse in questo modo, dinamizza un minimo la situazione, anche se a lungo andare non diverte troppo, nel suo ripetersi.
La frenesia del gameplay di Gunnhildr, comunque, darà del filo da torcere a partire dai primi scontri attuati, con nemici che tolgono il respiro e richiedono una particolare attenzione, una crescita graduale della difficoltà e una diversificazione negli intenti offensivi. Si potrà attaccare sia dalla distanza che in copro a corpo, e col tutto amplificato dai bonus ottenibili con la pulizia delle aree, e da particolari sfide, anche a tempo.
A cingere tutto questo troviamo una grafica non troppo impegnata, colta da un design generale che dapprima può incuriosire, per poi inevitabilmente stuccare. Si parla, comunque, di un videogioco che si costruisce sul ripetere quasi sempre le stesse azioni, in luoghi che alla lunga si assomigliano. La scelta verso una struttura di questo genere sicuramente necessita di un impianto estetico forte e riconoscibile, che tenga testa a un gameplay non troppo particolarizzato. Questo purtroppo manca, soprattutto quando le ore di gioco cominciano a lievitare, portando a uno stile generale che colpisce, senza ammaliare, per poi annoiare. Il senso di prigionia tende a dissiparsi con difficoltà, pur dimostrando l’attenzione verso – soprattutto – il comparto sonoro, in particolar modo con il doppiaggio, curato intessuto da un dettaglio espressivo che fin dall’inizio aggiunge un minimo di profondità alla situazione, altrimenti piuttosto scarna.