Non si tratta di scegliere per quale squadra fare il tifo. Non parlo di scegliere una fazione, né tantomeno mi riferisco a becere e inutili console war. Il problema che affligge God Of War è chiaro e sotto gli occhi di tutti, talmente in bella vista che gran parte dell’utenza mondiale non sembra avergli dato peso. Eppure è lì, maestoso come l’Oracolo di Delfi e profondo come l’oceano. God Of War non è God Of War. Chiarisco subito le mie intenzioni: accantonando alcuni palesi problemi di struttura dovuti alla giovine età di questo nuovo sistema di gameplay, di certo il nuovo titolo dello studio Santa Monica è qualcosa di imponente, un lavoro egregio che rende questo titolo uno degli action migliori di sempre. Eppure manca qualcosa, manca davvero.
Non mi nascondo dietro a inutili perbenismi, non idolatrerò questo titolo solamente perché lo attendevo da tanto. Già dalle prime immagini che vidi all’E3 l’angoscia mi colse, sentimento che giorno dopo giorno si è impadronito del mio essere, tramutandomi in una statua di fredda pietra come se Medusa mi avesse fatto l’occhiolino. Ad oggi, il verdetto è arrivato. Quando God of War è stato rivelato non avevo davanti agli occhi delle lenti rosa che trasmutassero la realtà. Non ho ceduto al canto delle sirene, ancorandomi il più possibile a ciò che volevo e non a ciò che mi veniva donato, ed è in quel momento che è nata la domanda che ancora adesso mi tormenta: perché? Rivoluzioni di questa portata non sono nuove a opere dal prestigioso vessillo, eppure queste sono arrivate in momenti per esse determinanti, momenti in cui tali rivoluzioni erano necessarie. Era necessario rivoluzionare God Of War? Conoscete già la mia risposta.
“Sacrilegio! Vilipendio! Il cambiamento è lecito!”
Vero, il cambiamento è lecito. Ma God of War aveva raggiunto forse quel picco di monotonia che lo condannava a un’era di infamia e disprezzo? Probabilmente no. Tralasciando il tallone d’Achille che risponde al nome di Ascension, il brand non ha mai sentito il viscerale bisogno di qualcosa che sfociasse al di fuori del classico “more of the same”. Velocità, adrenalina, brutalità, riflessi.
Il cambiamento è lecito, vero, ma solo se necessario. Molti brand nel tempo hanno avuto il bisogno storico-ludico di rinnovarsi, di offrire al giocatore qualcosa di più, qualcosa che mancava, qualcosa che facesse nascere dal bozzolo una splendida farfalla. Due grandissimi esempi sono Assassin’s Creed, che con Origins riesce finalmente a mettere la parola fine allo stantio gameplay che lo ha visto protagonista per troppo tempo, e Resident Evil VII, che innovandosi nell’approccio è riuscito però a creare il connubio perfetto per un horror game, dopo un paio di capitoli che avevano decisamente cambiato la rotta.
God Of War avrebbe avuto ancora molto da mostrarci, ancora molto da farci vivere. In un’epoca ambigua dove il classico e il nuovo vengono ammirati allo stesso modo, forse sarebbe stato giusto azzardare. La scommessa vive e pulsa nel passato: la sfida di mantenere salde le radici nella tradizione sarebbe stata più ardua da superare, ma di gran lunga più epica. Esatto, l’azzardo sarebbe stato nel rimanere fedeli a ciò che è stato. Mai nella storia di un brand il cambiamento è stato tanto vicino al concetto di omologazione. God Of War era un titolo come pochi, ora è un titolo come molti. Ha perso la sua unicità, le sue caratteristiche peculiari e, per molti versi, la sua anima.
A quest’anima ne è stata sostituita un’altra, magari altrettanto bella, ma da un punto di vista totalmente diverso… talmente differente che mi sembra di parlare di un videogioco con un titolo differente. Già, se fosse stato diverso il nome in copertina forse questo non avrebbe avuto un successo così grande, eppure avrebbe acquistato un valore unico. Kratos rimane, e con lui la vittoria ottenuta sull’Olimpo: ma più in alto si vola e più si rischia di cadere in picchiata, proprio come successe a Icaro.