La magia del cinema è quella di farci vivere epoche passate, per alcuni “rivivere”, nel caso fossero presenti al tempo in cui è ambientato il film: il modo in cui si riesce a catturare ed imbrigliare l’inafferrabile ed effimero, è quello che molti definiscono per l’appunto la magia. La recensione di ELVIS ci racconta un film che accenna la vita e le memorie di una persona (o di un personaggio) veramente esistito, per cui i voli di fantasia del regista Baz Luhrmann non dovrebbero essere poi così elevati, eppure anche qui il cineasta ha saputo dare la sua interpretazione di quel personaggio, consegnandoci un po’ di quella magia che il cinema sa dare… ma non riuscendo a convincerci del tutto. Negli ultimi anni abbiamo avuto bio-picture di diversi cantanti ed artisti, dai Queen con Bohemian Rhapsody (di cui vi ricordiamo la nostra recensione qui) ad Elton John, ed il “paragone” – o quanto meno l’idea – con questi due capolavori salta al naso quando si affronta una nuova disamina di un cantante che ha segnato la storia americana.
Un ragazzo del Mississippi
Tupelo, Mississippi: è qui che un ragazzino di nome Elvis Aaron Presley nacque e visse per gran parte della sua infanzia: sebbene la pellicola getti lo spettatore direttamente nella mischia, saltando la profondità di quel passato e regalando di getto nastri, luci e colori sgargianti (come ci si aspetterebbe, ma forse troppo presto), fondendo immagini a musica talvolta moderna (ce n’era bisogno?) in contrasto con piccole gocce di sudore inquadrate al punto giusto.
Quello che viviamo per buona parte del primo atto è un delirio frizzante ed eccitato, quasi compulsivo, traducendo quello che sarebbe dovuto essere un film biografico in un’opera pop, con tinte dirette più alla scena e alla spettacolarizzazione piuttosto che al racconto della vita di quel ragazzo del Mississippi, che in qualche maniera era destinato a cambiare il mondo (o a lasciare un’impronta indelebile del suo passaggio). Le note oscure del pubblico sotto al palco si contrastano con l’energia ed il folklore di quello che succede invece sul palco, dove le luci sono accesissime e ricche di vita: diciamocelo c’è stato un tentativo di emulare il successo autoreferenziale di Luhrmann con Moulin Rouge, quanto meno nella fotografia.
Un fuoco d’artificio
ELVIS è probabilmente descrivibile come un grande spettacolo di fuochi d’artificio: bello, intenso e luminoso ma lascia poco dietro di sé e del resto non racconta nulla oltre quello che è la leggenda. Intendiamoci: Austin Butler è magnifico, sembra quasi abbia lavorato assieme al cantante per riprodurne movenze ed espressioni, maniacale nell’immagine che voleva restituire, intenso nello sguardo e prefetto sul palco. Tom Hanks per contro è la figura che ci riporta con i piedi per terra, quella che fa un po’ da padre e un po’ da mentore al ragazzo: serve anche il silenzio dopo una musica spacca timpani come quella del giovane rocker.
Nel corso delle due ore e quaranta minuti che il film si prende per giungere al climax, ci sono fortissimi momenti di alto e tanti di vuoto, quasi autopilotati, dove comunque non succede quasi nulla: non si va troppo nel profondo del personaggio, si accarezzano dubbi e problematiche ma non si arriva mai veramente all’anima di quella persona, insomma sembra una parafrasi del mondo moderno, capace di citare Dante ma di non comprendere il significato delle sue parole, dove si arriva in un posto e si scatta una magnifica foto con il cellulare ad un monumento, e si pone una citazione in basso. Lieto fine. Il tutto senza andare oltre la foto, senza avere una vera e solida conoscenza di quello che si sta guardando (ed in teoria) vivendo. Forse è mancato quel guizzo di coraggio alla produzione, quell’andare oltre il pop luminoso e farci vivere una storia più profonda.
Ultimo tango a Memphis
La compressione che il film genera con il tempo è un altro tallone d’Achille della produzione, infatti ci si sente subito coinvolti con un protagonista al massimo della sua forma a metà degli anni ’50 per poi darci in pasto a quello che fu una sequela di insuccessi del cantante, fatti realmente accaduti per carità, ma appena accennati, quasi a farci vivere uno “sfigato” piuttosto che un’artista. Come sappiamo ELVIS ruppe gli schemi, fece quello che nessuno aveva fatto fino ad allora, e questo sollevò controversie e non solo (ricordatevi che siamo tra il ’55 ed il 1960, certi comportamenti che oggi diamo per scontati all’epoca potevano finire male, nel senso che qualcuno poteva anche spararti se tanta era l’offesa che subiva).
La figura del Colonnello che rimette in gioco (o tenta di farlo) l’artista cercando di renderlo un cantante per famiglie non fa altro che alimentare rabbia e infelicità in Elvis. Il problema sta nella fatica di comprimere un tempo che va dai primi anni 60 fino al ’68 in poco più di due minuti di girato, peraltro creando un film nel film per poi passare alla politica dell’epoca, ma il senso di ribellione, la rabbia del protagonista non esplode mai: è come se al gran finale di uno spettacolo pirotecnico manchi il “botto”, il climax che ti aspetti da tutta vita (del film). ELVIS è una promessa mantenuta solo in parte e questo è stato un vero peccato.