Quest’ultima edizione del Festival di Venezia ha sicuramente ospitato alcune delle produzioni più interessanti del settore cinematografico, con un particolare riflettore puntato sul panorama europeo. Tra questi vi è sicuramente Dogman, ultima fatica di Luc Besson, che analizzeremo a fondo in questa nostra recensione.
“Ovunque ci sia un infelice, Dio manda un cane”
Con questo film chi vi scrive ha avuto un rapporto conflittuale sin dal suo annuncio: magari per il nome identico al lungometraggio di Matteo Garrone uscito qualche anno fa, oppure per l’uomo che ne ha firmato la regia, Luc Besson, dalla carriera alquanto altalenante (seppur con dei picchi assoluti come il suo capolavoro Léon). Insomma, siamo entrato in sala con più di qualche dubbio che ci attanagliava la mente, dubbi che il film in poche scene ha – fortunatamente – smentito.
Dogman è un film cupo, cattivo, che non ci pensa due volte a sbattere in faccia allo spettatore la crudeltà che il povero protagonista Doug ha vissuto sin dalla sua infanzia, e che lo ha trasformato in uno spietato assassino. Il film infatti comincia con l’arresto del nostro protagonista, che verrà interrogato da una psichiatra con la quale finalmente si aprirà e racconterà tutto.
Qui veniamo riportati all’infanzia di Doug, dove viviamo insieme a lui i traumi provocati dalla sua famiglia, in particolare dal padre e dal fratello, che oltre ad essere estremamente cattolici erano anche proprietari di cani da combattimento, che lasciavano digiunare per settimane in vista delle lotte così da renderli più feroci. Solo Doug e sua madre provavano a trattare bene questi animali, ma venivano prontamente puniti dal “capo” della famiglia. Un giorno, però, il nostro protagonista commette un’ingenuità di troppo e il padre, incoraggiato dal fratello, decide di rinchiuderlo insieme ai cani che lui amava tanto.
Il segmento che narra le vicende di Doug da ragazzino è senz’altro il punto più alto di tutta la pellicola, dove i temi principali del film vengono ampliati ed espressi di più e con più ferocia, quali l’indifferenza della società e il bigottismo dei cattolici più devoti, con un utilizzo impeccabile della macchina da presa e una fotografia che ci regala delle inquadrature davvero ottime. Una su tutte teniamo a ribadirla, la vedremo quando Doug all’interno della gabbia viene raggiunto da un colpo di proiettile che gli paralizzerà le gambe e lo costringerà su una sedia a rotelle a vita: con un carrello all’indietro vediamo il suo corpo steso a terra, con i cani che piano piano lo raggiungono e si sdraiano tutti intorno a lui, creando una composizione finale davvero magistrale.
Ovviamente i paragoni con il Joker di Todd Phillips non si sprecano: entrambi in concorso a Venezia, entrambi con dei protagonisti emarginati dalla società e con un passato oscuro interpretati entrambi da artisti che hanno fornito delle prestazioni attoriali eccellenti. Caleb Landry Jones ci dona forse la sua migliore interpretazione, cosa che gli è quasi valsa anche una Coppa Volpi al suo debutto da protagonista al festival. Il suo Doug è un personaggio complesso e turbato, dalla sessualità anche incerta che sfoga con delle esibizioni drag una volta a settimana, donandoci forse la scena più bella di tutto il film. Una scena dove l’arte diventa quasi miracolosa e salvifica, che riesce a far dimenticare ogni disgrazia e ogni fallimento.
I cani hanno un solo difetto: si fidano degli uomini
Ciò su cui Dogman inciampa, purtroppo, si può trovare nel nome stesso del film. Escludendo le scene dedicate all’infanzia di Doug, le scene con protagonisti i cani non sempre riescono ad essere credibili, tanto da far abbassare drasticamente il livello di immersione e di sospensione dell’incredulità.
Questa cosa succede a più riprese e ogni volta il livello di drammaticità – anche in momenti concitati come il finale – cola a picco, facendo sembrare il protagonista quasi come un supereroe che riesce a controllare i cani, anziché uno che ha passato la vita ad addestrarli. Delle volte sembrava di vedere una commedia alla “Mamma ho perso l’aereo”, tanto che in sala sono partite più di un paio di risate.
Proprio nel momento in cui il film doveva mostrare la vera rabbia e la ferocia dei cani di Doug, il film invece tira il freno per edulcorare quelle che sarebbero dovute essere le scene più cruente del film, ma che invece decidono di lasciare il tutto all’immaginazione, con giusto qualche guaito e urlo in lontananza. Non sappiamo se questo fosse l’obiettivo di Luc Besson, ma per giudizio personale la scelta non è stata il massimo, ma anzi fa storcere il naso. Ciononostante, c’è da sottolineare il grosso lavoro fatto dal regista, egregio nel dirigere tutti questi animali sul set, cosa assolutamente non da sottovalutare.
Ribadiamo che il film si pone anche con una feroce presa di posizione contro la Chiesa, e in particolare al bigottismo che Luc Besson decide di criticare.
Infine in questa nostra recensione di Dogman teniamo a ribadire anche l’enorme lavoro che è stato fatto con le scenografie: dalla gabbia in cui è cresciuto Doug, alla casa che si è ricavato tra le macerie di una casa abbandonata dopo essere appunto diventato “Dogman”, fino al pub dove pur di potersi esibire decide di affrontare anche la propria disabilità, spingendosi oltre il suo limite. Maniacale anche la cura riposta nei costumi, che sottolineano più di qualsiasi parola ogni personaggio che compare a schermo.