Detroit: Become Human – Recensione dell’ultima opera di David Cage

Gianluigi Crescenzi
Di Gianluigi Crescenzi - Deputy Editor Recensioni Lettura da 14 minuti
9.5
Detroit: Become Human

La strada è stata molta, e non mi riferisco solamente alla lunga gestazione di Detroit: Become Human, ma anche al percorso iniziato da Quantic Dream quasi vent’anni fa con Omikron: The Nomad Soul. Una fetta di tempo decisamente ampia che ha visto plasmarsi e rivoluzionarsi la tecnologia, così come i desideri dei videogiocatori. La filosofia che sta dietro i titoli dell’eclettico David Cage è molto peculiare, privilegiando la sceneggiatura e l’esperienza stessa a discapito della componente ludica, meno marcata. Le premesse e le aspettative che negli ultimi anni hanno accompagnato Detroit: Become Human hanno alla base dati importanti, come i dieci anni di scrittura dietro alla sceneggiatura, ma anche le varie dichiarazioni degli sviluppatori su come il titolo riesca a raggiungere un livello di possibilità e conseguenze mai visto prima in un’avventura. La domanda più grande che ci si è posti durante questo periodo, riguarda gli errori del passato e la loro possibile correzione: è indubbio che la già citata componente ludica sia spesso in secondo piano, ma anche questa ha bisogno di innovazione, dovendo appagare non solo l’animo del giocatore. Ci saranno riusciti? Togliendo subito le castagne dal fuoco, la risposta è si. Non aspettatevi certo frenesia allo stato puro come negli sparatutto, ma non aspettatevi nemmeno la piattezza di interazione tipica ad esempio delle visual novel. Detroit: Become Human è in assoluto la miglior avventura del suo genere che sia mai stata pubblicata.

Detroit: Become Human

Detroit: Android City

Come è ormai noto, la trama si svolge in una Detroit futuristica, con gli avvenimenti che si svolgono nel novembre del 2038, sotto il governo di un presidente donna. Dopo essere stata una delle città simbolo dell’industria automobilistica americana nell’epoca moderna, il passo evolutivo decisivo non a caso è stato compiuto nella città del Michigan. L’invenzione più grande della storia dell’umanità risale a dieci anni prima, con la scoperta di un nuovo materiale sintetizzabile, utilizzato dalla Cyberlife per costruire “biocomponenti” e per creare Androidi: macchine dalle fattezze umane programmate per eseguire ordini di ogni tipo. Una delle componenti più affascinanti del titolo è senza dubbio il background storico che vi è stato costruito alle spalle, che con i suoi avvenimenti ci accompagnerà per tutta la durata del gioco: chiaramente con una risorsa così importante sul piatto, è impossibile evitare attriti tra le nazioni più potenti del globo – in questo caso Stati Uniti e Russia – nella contesa dei territori ricchi di minerali per creare il Thirium, primo fra tutti il Polo Nord. Questa risorsa sarebbe l’ago della bilancia in grado di potenziare a dismisura i comparti bellici e industriali di questi stati.

Dalla loro creazione in poi, gli Androidi hanno iniziato a far parte della vita quotidiana degli esseri umani, svolgendo mansioni spesso dedicate ad essi, come il giardinaggio, manutenzione, babysitting, ma anche tutori della legge e oggetti di piacere, venduti nei negozi come la più normale delle merci. Le conseguenze non hanno tardato ad arrivare, con la disoccupazione arrivata ai massimi storici e l’aumento esponenziale di umani costretti a mendicare per strada. Data la loro superiorità fisica e intellettiva, ma anche del costo zero della manodopera, questi sono utilizzati anche nello sport e nell’assistenza sanitaria. Il risultato? Un radicato odio verso gli Androidi che man mano ha raggiunto il razzismo, con locali che ne bandiscono l’entrata, o scompartimenti degli autobus a loro dedicati. Tutto ciò che accade nel mondo e la descrizione della società – utopica o distopica – creata da Cage, potremo scoprirlo nelle varie riviste elettroniche disseminate nelle scene di gioco, ma anche nei notiziari alla TV. Per quanto tempo reggerà questo fragile equilibrio?

Tre vite

Evitando qualunque tipo di spoiler legato alla trama, ci troveremo a controllare durante la nostra avventura tre Androidi, con una storia e un ruolo nella società nettamente diversi. Abbiamo già avuto modo di conoscerli tutti, grazie ai numerosi trailer e video gameplay che Quantic Dream ha pubblicato durante lo sviluppo. Questi sono Connor, un modello RK800, prototipo programmato per assistere gli investigatori umani nelle indagini e dotato di un modulo sociale; Kara, un modello AX400 progettato per svolgere mansioni domestiche; e Markus, modello RK-200 anch’esso prototipo, al servizio del noto pittore Carl Manfred. Dotati di peculiarità che ne dettano comportamento, interazione, e capacità fisiche, i tre vivranno le rispettive storie spinti da motivi personali, con i loro cammini destinati a intrecciarsi, nel bene e nel male.

Il marchio di fabbrica dei titoli di Quantic Dream è presente in tutta la sua semplicità anche in Detroit: Become Human. La consequenzialità con cui le scene verranno vissute, il ritmo alternante momenti di vera tensione ad altri estremamente toccanti ed emozionanti, ci faranno vivere un’esperienza al limite della cinematografia, e con un livello di parti giocate molto più alto rispetto alle precedenti produzioni. Uno dei sentimenti più forti che, in certi versi paradossalmente, ci terrà la mano per tutta la durata del gioco, è l’empatia con i personaggi: lo scambio continuo di informazioni tra esperienze personali dei protagonisti e situazione socio-culturale, porta inevitabilmente il giocatore a immedesimarsi in essi e a compiere difficilissime scelte con la loro mente. Una delle differenze più forti che a livello narrativo – e non solo – porta il titolo su un’altro piano, è la possibilità di perdere i personaggi anche nelle prime fasi di gioco, cosa che renderà ancora più pesanti le nostre decisioni e la nostra abilità nei Quick Time Event (divenuti più dinamici e con un tempo di reazione richiesto migliore). Colpi di scena? Assicurati.

Meccanica Deviante

Ciò che rende Detroit: Become Human un titolo più che all’avanguardia, è l’essere riuscito a regalare del sano “more of the same”, ma con delle aggiunte incredibili. Nulla che segni una rivoluzione-miracolo all’interno del gameplay, ma che riesce a sfruttare fino al limite delle meccaniche già esistenti, quasi come se questo fosse il videogioco che fin dall’inizio voleva essere creato da Cage e il suo team. Le differenze sul piano dell’interazione sono molte e di certo più lungimiranti di quanto visto con un Beyond: Two Souls, abbandonando in molti casi la struttura narrativa “a corridoio” e permettendoci di scegliere cosa fare e quando farlo (come sempre non avremo tutto il tempo del mondo, e il cronometro ticchetterà spesso inesorabilmente). Anche se alcune meccaniche in game sono state ispirate da diverse altre produzioni e riproposte in salsa Quantic Dream, la novità più grande sta nel Diagramma, disponibile per ogni singola scena: in questo verrà descritto con uno schema ramificato tutto il percorso fatto nel capitolo, con ogni singola scelta, ogni singolo avvenimento, e con moltissimi spazi vuoti a segnare le varianti che non si sono palesate. Alcuni eventi dipenderanno fortemente da quelli precedenti, e anche le scelte più semplici potranno avere conseguenze decisive col proseguire della storia. Mai in assoluto ci siamo trovati di fronte a una quantità così impensabile di risvolti e di variabili; traduzione, la rigiocabilità del titolo più alta mai vista in un titolo di questo genere. Vi basti pensare che in alcuni casi potreste non giocare intere, macroscopiche scene, in base alle vostre scelte precedenti.

Un’altra meccanica del tutto nuova per i titoli Quantic Dream – che anche se in modalità diverse, ci riporta con un piccolo deja-vu ad Until Dawn di Supermassive Games – è il rapporto con i personaggi comprimari: il nostro comportamento influirà pesantemente sulle reazioni dei nostri amici, così tanto che molte situazioni saranno totalmente stravolte. Ovviamente non scenderemo nei dettagli per evitare spoiler.

Come già detto i nostri protagonisti avranno delle capacità particolari, cosa che differenzierà nello svolgimento le parti giocate con l’uno o con l’altro, come Connor e la sua abilità di ricostruzione, o Markus con la sua capacità di calcolo e previsione che gli tornerà utile nelle fasi d’azione. Altre sono le aggiunte che, sebbene meno incisive in termini di gioco, riescono a fare da contorno gradito a un’esperienza che fa del carisma e della narrazione il maggior vanto, ad esempio l’inserimento dell’uso del touchpad per compiere alcune azioni, ricordando che si tratta del primo gioco dello studio sviluppato da principio per PlayStation 4. Durante il gameplay potremo cambiare la telecamera e il punto di vista semplicemente premendo R1, godendoci le particolari ambientazioni dall’angolazione che vogliamo. Infine, se non vogliamo perdere tempo girando in tondo alla ricerca dei punti attivi, questi ci verranno evidenziati tenendo premuto R2, funzione che farà comparire a schermo anche l’obiettivo attuale.

November Rain

Pioggia, ma soprattutto molta neve. Sono molte le scelte artistiche controverse adottate in Detroit: Become Human per dipingere il ritratto della città americana. Gli ambienti di gioco sono cangianti, con una variegata palette di colori molto spesso brillanti in determinate scene, che si alternano ad altre sequenze soffocate da un grigiore opprimente, una tossicità che rende l’umore saturo di pessimismo. Graficamente parlando il titolo è affascinante nei dettagli, ripercorrendo le orme di Beyond che si era dimostrato uno dei titoli più all’avanguardia su PlayStation 3 per il comparto citato. Oltre ad una cura ottima per i dettagli, il lavoro più grande è stato fatto sulle espressioni facciali, sia degli umani sia degli androidi: molto spesso saranno proprio quelle a spingerci in una direzione piuttosto che in un’altra. Questo turbinare di colori e dettagli viene accompagnato da un comparto sonoro eccellente, con una soundtrack creata in modo perfetto e con un team di doppiaggio degno delle grandi occasioni. Senza dubbio il titolo riesce a dare il meglio se giocato in 4K con PlayStation 4 Pro, ma riesce a difendersi egregiamente anche sulla versione standard della console ammiraglia di Sony, senza inoltre presentare problemi di caricamento o cali di framerate.

A chiudere il cerchio ci sono delle caratteristiche di contorno che, all’effettivo, sono parte integrante dell’esperienza di gioco che Detroit: Become Human ci offre. Sarà possibile rigiocare i capitoli, anche se li abbiamo appena completati, ma il consiglio principe è quello di godervi l’esperienza appieno tutta d’un fiato, di creare la vostra storia e di provare solamente in un secondo momento i diversi risvolti. Nella sezione “Extra” saranno disponibili dei contenuti sbloccabili con i punti ottenuti in game – ne guadagnerete a pioggia – che comprendono album di bozzetti, colonna sonora, video, ma soprattutto la galleria dei personaggi: tramite quest’ultima potrete ammirare i modelli in 3D di tutti i personaggi – compresi i cittadini – potendo modificare gli effetti che li circondano. Cosa ben più importante, ogni personaggio nella galleria disporrà di una parte scritta che ci racconterà chi è, svelando ulteriori informazioni sulla trama di cui non siamo venuti a conoscenza durante i nostri playthrough. Potremo inoltre accedere alla raccolta di tutte le riviste che abbiamo trovato nel gioco, e ricostruire il profondo background di cui abbiamo parlato. Ultima chicca che riguarda il menù principale, non vi verrà svelata.

Detroit: Become Human
9.5
Voto 9.5
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Deputy Editor
Classe 90, invecchia bene tanto quanto il vino, anche se preferisce un buon Whisky. Ama l'introspezione, l'interpretazione e l'investigazione, e a volte tende a scavare molto più del necessario. Inguaribile romantico, amante della musica e cantante in erba, si destreggia tra hack n'slash, soulslike, punta e clicca e... praticamente qualsiasi altro tipo di gioco.